Riemersero dall'inferno della Foiba

Comunicazione di Andrea Arpaia al convegno “Foibe – La storia in cammino verso la verità”, organizzato dall’I.S.S.E.S. in Napoli, il 28 gennaio 2001. 

Andrea ArpaiaFoiba, dal termine latino "fovea" col significato di baratro, crepaccio, ecc..., indica l'abisso naturale, il pauroso inghiottitoio che si sprofonda nelle viscere della terra con un salto in verticale anche di oltre 200 metri, ma talvolta molto meno, come le Foibe di Fianona, vicino Pola.[1]
In Istria sono state da tempo conosciute e numerate 1600 di queste voragini, classificate come "uno dei più appariscenti fenomeni carsici dell'Istria".
Con lo stesso nome furono indicati alcuni profondi pozzi artificiali per la ricerca mineraria, come nel caso del Pozzo-Foiba di Basovizza, vicino Trieste.
Le Foibe nei pressi di Fianona interessano segnatamente le testimonianze che riporteremo e pertanto sarà necessario metterne in risalto le particolarità più essenziali per capire come sia stato possibile che due "infoibati" abbiano potuto risalire alla superficie: le Foibe nei pressi di Fianona erano di un particolare tipo, per cui restavano ricolme d'acqua ad altezza variabile per le piogge o per le infiltrazioni marine; ma le pareti, pur essendo generalmente a strapiombo, nondimeno offrivano la possibilità a particolari piante ed arbusti di vegetare sfruttando anfratti e sporgenze della roccia su cui si era stratificato un leggere strato di terreno.
Ha scritto il sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana - M.D.T Graziano Udovisi:[2]
“All'alba del 14 maggio 1945, a guerra ormai finita, sei persone, fra cui lo scrivente, dopo una lunga notte di orrenda tortura, con i corpi straziati per le sevizie e ridotti ad una massa sanguinolenta, irriconoscibili nell'aspetto, legati con filo di ferro ai polsi ed alle braccia e costretti in un unico sconvolgente gruppo, con un sommario novello rito barbaro, a sventagliate di mitragliatore, furono scaraventate nello spaventoso crepaccio dove il tristemente noto "Cane Nero" avrebbe trattenuto in quell'"orrido" le anime degli infoibati che, diversamente, avrebbero potuto turbare le notti di questi carnefici: gli infoibatori slavi".
Una voragine colma d'acqua, nei pressi di Fianona, accolse l'olocausto di queste sei persone: Felice Cossi, Natale Mazzucha, Carlo Radolovich, Giuseppe Sabath, Giovanni (Nini) Radeticchio, Graziano Udovisi.
Graziano Udovisi, sottotenente proveniente dalla scuola A.U.C. di Pola fu destinato al distaccamento di Rovigno della G.N.R.- M.D.T. (Milizia Difesa Territoriale). Ricevuto l'ordine di ripiegare, si ritrovarono in territorio già in mano degli slavi; tuttavia la notte fra il 30 aprile  ed il primo maggio il piccolo reparto alla spicciolata, ma al completo, riuscì ad infiltrarsi in Pola già semioccupata da alcuni slavi che si erano abbandonati a bagordi e profonde ubriacature. Il minuscolo reparto si sciolse senza consegnare le armi al nemico e lasciando la possibilità a tutti i componenti di tornare alle proprie case.
Il sottotenente Udovisi si era già messo in borghese e si era organizzato in modo da non farsi scovare in seguito ad una probabile perquisizione della "Guardia del Popolo", (composta di comunisti titini, ma purtroppo anche italiani), quando venne a trovarlo uno dei suoi sottufficiali che gli riferì che gli slavi stavano cercando dappertutto i legionari del suo distaccamento e gli chiese se poteva fare qualcosa. Nella mente del giovanissimo ufficiale scattò in quel momento il bisogno-dovere di proteggere i suoi subordinati, nonostante ormai il reparto fosse stato sciolto e, conseguentemente, ogni sua responsabilità fosse decaduta. Oltre tutto non era più possibile agire in gruppo; sarebbe stato più efficace tattica disperdersi, come già fatto, tra la popolazione civile di profondi sentimenti italiani.
Il sottotenente Graziano Udovisi, aveva all'epoca soltanto 19 anni, molti dei suoi legionari erano più maturi di lui,  ma l'educazione ricevuta alla scuola A.U.C. della GNR gli faceva sentire una responsabilità eroica, che non trovava limiti nel senso comune.
Corse direttamente al comando dei titini per dire che i suoi uomini erano ormai già arrivati a Trieste, sperando che in questo modo avrebbero forse smesso di cercarli, forse li avrebbe salvati, ma era ben conscio della sorte che attendeva lui, comandante del distaccamento. Infatti gli legarono immediatamente le mani dietro la schiena col filo di ferro e, senza neanche interrogarlo, lo sbatterono in una cella di dodici metri quadrati, nella quale erano già stipate una trentina di persone. Stretti come sardine, tutti con le mani legate con il filo di ferro che lacerava le carni, i polsi gonfi non facevano che peggiorare la situazione. Morivano di sete... gli offrirono un fiasco mezzo pieno di urina. Erano tutti seminudi, scalzi, derubati di ogni cosa e perfino di tutti i propri indumenti, erano stati costretti ad indossare soltanto un paio di luridi pantaloni a brandelli, di probabile provenienza slava.
Graziano Udovisi, in una sua intervista resa a Maria Paola Gianni, pubblicata sul Secolo d'Italia del 29/10/1996, dichiarò: “Almeno ventimila italiani sono stati massacrati in questo modo [...] ad un certo punto ci hanno prelevato in sei e portato in un'altra stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz'ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto tagliarmi a pezzettini e non me ne sarei reso conto. Il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena. Una donna ufficiale mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della pistola. Poco prima dell'alba ci legarono in fila indiana, l'ultimo di noi era svenuto e gli fecero passare il filo di ferro attorno al collo. Lo abbiamo  inevitabilmente soffocato nel dirigerci verso la foiba. Erano tutti contro di noi, la banda d'accordo con gli slavi. C'erano anche dei partigiani comunisti e dei borghesi italiani. Durante il viaggio sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni e ho sempre sofferto di calcoli. Sono completamente sordo all'orecchio sinistro e l'altro funziona al 50 per cento. Durante il tragitto mi fecero mangiare della carta, inghiottire dei sassi...ci hanno sparato vicino alle orecchie.... Si divertivano a vederci sobbalzare...”.
Da un altro suo racconto, di Udovisi, riprendiamo dal momento in cui, pochissimo tempo dopo le torture subite, stavano per essere portati via:
C'è un movimento intorno, devo piegare di molto all'indietro la testa per vedere e scorgo dei corpi, anzi delle masse informi alterate come maschere, dipinte d'un colore rossastro. Per quanto posso, punto meglio il mio sguardo sul corpo più vicino e noto un lento, continuo sgorgare di sangue dalle tante ferite che rendono la sua schiena una poltiglia informe. Pure un altro si guarda intorno. Un occhio diventato una massa nera, gonfia, chiusa, mostruosa, si erge sul volto rigato di sangue, che cola dal capo e dall'irriconoscibile fronte... Con uno sforzo cerco di alzarmi, traballo, cado sui ginocchi, vorrei stendere le mani...le mani no, non posso, non posso aiutarmi, sono legate dietro la schiena col filo di ferro. "Presto bastardi, traditori, presto! Mettetevi in fila!" comanda il grosso, alto caporione calciando il corpo steso per terra e strattonandomi per i capelli...
[Ha inizio il calvario verso la Foiba. Il capo] ... mi si avvicina e sferza ripetutamente il mio corpo rabbiosamente. Mi fa avanzare, estrae lentamente la pistola dalla fondina , la impugna per la canna e picchia con forza il calcio dell'arma all'altezza del mio orecchio già precedentemento leso. Sento la mascella staccarsi, cedere. Al momento non sento dolore. La lunga tortura mi ha reso insensibile..."Avanti, avanti!" Il filo di ferro preme là dove si è fossato, nell'incavo interno del gomito, sul tendine del muscolo, e il dolore si manifesta gradualmente con il tremito di tutto il corpo...Cado....Fulminea arriva la pesante vigliacca botta...Vengo sospinto sul terreno in pendenza... c'è una roccia ai miei piedi, bianca, che scende in verticale e si perde in una grossa fossa scura, voragine già conosciuta in altra parte, non lontano da qui. Madonna, Madonna mia! E' la Foiba![3]
<Siamo pronti, il masso è legato al collo> dicono alcune voci...Il mortale crepitio delle armi è assordante, vedo la fiamma uscire da uno dei mitragliatori puntato su di noi. Mi sento spingere, non attendo oltre, mi butto... Cado su di un ramo sporgente che sembra trattenermi, ma subito si strappa e rovina con me. Precipito in quella gola nera. Un tonfo, più tonfi e l'acqua si chiude su di noi. Mi sento trascinare giù verso il fondo...l'istinto di conservazione mi fa muovere ritmicamente gambe e braccia indolenzite per giungere in superficie. Tocco una grossa zolla erbosa, no, è una testa e tra mie dita ci sono i capelli. Afferro e tiro spasmodicamente verso di me quel corpo inerte. Risaliamo insieme , sono a pelo d'acqua, emergo con la testa e respiro a pieni polmoni”.
Gli assassini sono rimasti sul posto, hanno sentito fruscii sospetti provenienti dal fondo e per chiudere definitivamente l'impresa eroica lanciano una bomba a mano, poi ancora una seconda. I due infoibati, dopo un pò si rendono conto che tutto sembra finito.
L'amico-  racconta Udovisi - mi fa notare una rientranza che ci può accogliere. Ascoltiamo se giunge qualche suono di voce o rumore di passi... Con fatica ci arrampichiamo e ci rannicchiamo in quel breve spazio”.
Il camerata che il sottotenente Udovisi, in uno spasimo d'amore contro la bestiale ferocia dei partigiani, era riuscito a tirare fuori dall'acqua, era Giovanni Radeticchio, classe 1920, militare del 2° reggimento "Istria" della GNR - MDT, in servizio presso il distaccamento di Marzana (Pola).
Anche lui ebbe occasione di raccontare la sua straordinaria avventura. E da lui apprendiamo altri agghiaccianti particolari.
A questo punto chiarisco che non ho assolutamente il "gusto" del thriller. Anzi evito sempre di leggere o assistere a proiezioni di quel genere.
Quindi mi rendo conto della repulsione che tanti particolari possono suscitare nella maggioranza delle persone, ma sono convinto che nulla si debba nascondere, perchè la verità storica non deve essere falsata nella sua crudezza, quando questa "crudezza" è esistita  ed è stata la caratteristica costante  delle operazioni di "pulizia etnica". di vero e proprio "terrorismo etnico", svolte dai partigiani comunisti non solo slavi, ma anche italiani, che diedero libero sfogo alla loro rabbiosa ferocia,  che d'altronde era parte di un preordinato disegno, come ha documentato Marco Pirina.
In una parola la ferocia dei partigiani era funzionale al disegno politico di "pulizia etnica", perchè il terrore sparso tra la popolazione sopravvissuta avrebbe generato, come poi avvenne, l'esodo di 350.000 italiani.
Questo tragico episodio che propongo all'attenzione dei lettori, non è quindi un fatto sporadico, è soltanto un esempio, una eccezionale testimonianza di due sopravvissuti - gli unici di cui si abbia notizia certa - testimonianza allucinante di un genocidio perpetrato con inumana, generalizzata ferocia, che sarebbe ingiusto definire bestiale, perchè le bestie non torturano le loro vittime fino allo spasimo.
E per capire meglio le ragioni di tanto odio, cito dalla voce "resistenza" del Dizionario di politica, diretto da Bobbio, Matteucci e Pasquino, (Milano 1991) la teoria della guerra partigiana che "incarna l'ostilità assoluta, perde la distinzione tra nemico e criminale [...] cessa non con la pace negoziata, ma con lo sterminio [...] si svolge in base al terrorismo".
Di questo odio assoluto, senza fine, si erano nutriti durante la lotta i partigiani - ed i partigiani comunisti in particolare, indottrinati dai commissari politici, che plagiavano ogni banda partigiana  con le teorie Marxiste-leniniste - incitati ad uccidere odiando, tanto dai dirigenti che dalle radio, da cui giornalisti senza scrupoli lanciavano continui criminali appelli a spargere sangue.
Possiamo sforzarci di capire dunque come tante belve sanguinarie abbiano potuto continuare aa odiare implacabilmente, ossessivamente  anche esseri inermi ed inoffensivi, vecchi, donne, bambini.
Su queste selvagge passioni sanguinarie si innestò l'atavico odio razziale  del barbaro contro l'italiano di antichissime tradizioni civili.  Si svolsero dei veri e propri pogrom contro l'intera popolazione italiana di quelle terre che erano riusciti a invadere.
Passiamo la parola a Giovanni Radeticchio:[4]
"Dopo andati via - racconta con popolana semplicità Radeticchio, parlando dei partigiani che si sono ritirati - mi sono messo in una specie di scalino che era di fianco a me, mi sono sdraiato sul fianco e con le dita riuscii a molare il ferro che mi legava la mano e questo forse dopo un'ora: il ferro era così conficcato che staccandolo vennero via anche dei pezzi di carne”.
Non è facile immaginare con quanta fatica i due estenuati giovani, spezzati nel fisico, costernati per la morte degli altri quattro camerati, ma, per reazione, estremamente determinati a sopravvivere, poterono disperatamente aggrapparsi alle sporgenze ed alle anfrattuosità della roccia per riguadagnare, in un lungo e sovrumano sforzo, la sommità della Foiba. Non è facile capire come avvenne. Ma la realtà è che con la forza della disperazione riuscirono a tornare alla sommità e ad uscire dalla Foiba con il favore delle tenebre.
Radeticchio raggiunse casa sua e si nascose in cantina: nessuno lo cercò più.
Ormai poteva vivere in pace:  per la repubblica comunista slava era morto. Era l'unico possibile "lasciapassare" per un italiano dell'Istria non disposto ad accettare la dominazione iugoslava.
Suo padre lo aiutò a salvarsi e lui si presentò dopo un mese alle autorità "alleate" a Pola. Anche Udovisi riuscì a riaggrapparsi alla vita, e raggiunse finalmente, dopo altre dolorose, esasperanti peripezie, Pola, all'epoca occupata dalle truppe "alleate".
Ma gli altri quattro sventurati? Gli altri ventimila? Per dovere di cronaca, per maggior chiarezza e più completi particolari, a conferma della quasi incredibile eallucinante vicenda narrata dal sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana - MDT Graziano Udovisi, riportiamo qui di seguito la dichiarazione rilasciata  il 23 luglio 1945 alla CRI di Trieste da Giovanni Radeticchio, dichiarazione rilasciata in tutta schiettezza e lasciata letteralmente integra dal verbalizzante:
"Il giorno 29 aprile mi sono presentato ai partigiani. Loro me diseva che i me lasserà libero appena che consegnemo le armi e infatti i me gà lassà libero e son andà a casa a Sissano. Sono stato tre giorni a casa , poi mi portarono via, fu mio cugino a dare l'ordine, Presidente del Comitato Sloveno di Sissano e mi portarono a Medolino (Pola N.d.r.) e là rimasi sei giorni in prigione, poi mi portarono a Dignano, dove rimasi altri tre giorni... senza essere maltrattati e ci davano bene da mangiare (quello che mangiavano loro). Il giorno 11 mi portarono verso Barbana; qui siamo arrivati la notte, al mattino del 12 siamo partiti verso Arsia; appena siamo stati fuori dal paese di Barbana cominciarono a batterci col calcio del fucile, o con la canna, e davano grandi colpi sulla schiena perchè i ne considerava fascisti. Arrivati in Arsia là i ne gà spoià de tutto, sciolto le scarpe, i calzoni, dandone un paio tutti stracciati, e poi la camisa e tutta la roba del zaino, sapone, macchinetta per la barba, portafoglio, orologio.
Finito de ciorne tutto, ci portarono a Pozzo Littorio, vicino Albona; là siamo restati fino a sera. Un mio paesano lo prendevano per la nuca e con altri due lo facevano curvare e in una stanza lunga 10/15 metri lo facevano correre a tutta forza da una parte all'altra e lo facevano sbattere con la testa nel muro e se cadeva a forza di calci e colpi col fucile lo facevano rialzare e ripetevano l'operazione".
Legati due a due con il filo di ferro ai gomiti, che entrava nella carne, oltre le strette legature ai polsi, furono trasferiti a Fianona, scalzi, sempre legati, distesi per terra a trascorrere la notte ancora legati col fil di ferro.... “Abbiamo chiesto di mollarci un pò, ma invece non lo permisero. Il mio compagno aveva tutta la mano gonfia per mancanza di circolazione e gridava tutta la strada. Il fil di ferro gli entrava nella carne  e non si vedeva neanche più. Ho cercato di allentare un poco il ferro ma vedendomi far ciò strinsero ancora di più il ferro con la tenaglia..."
Furono trasferiti in una cella, dove furono slegati, ma subito  dopo legati ancora e.. "verso le 21 circa, se ben ricordo, del giorno 13, cominciarono a chiamarci uno alla volta...e poi cominciarono a bastonare di santa ragione. Mi ero l'ultimo a essere chiamà: appena entrà sulla porta go visto una stanza de circa 3 m. per 4 m.; per terra dei sacchi sporchi di sangue e i miei compagni per terra o sui sacchi come morti, tutti sporchi di sangue e la faccia tutta segnata. Erano in cinque a battere: uno batteva con un ferro, una ragazza con la cinghia dei pantaloni, un altro con un bastone... Erano circa le 3-4 del mattino, finito di bastonarci, io ero l'ultimo..."
Furono legati a due a due, sempre col terribile fil di ferro che segava i tendini negli incavi dei gomiti e poi tutti insieme, in sei "Per la strada ancora colpi e se si cadeva ci facevano rialzare a colpi di moschetto e di bastone, siamo arrivati vicino alla foiba. Uno andò a vedere da dove potevano buttarci dentro e ci chiese: <Siete contenti di andare in foibe?>. Poi ci mollarono il ferro che ci legava tutti e sei e ci legarono un sasso con un filo di ferro alle mani che erano sempre legate dietro alla schiena...Poi ci fecero alzare e ci fecero camminare verso la foiba, uno alla volta e dovemmo andare avanti da soli; io sono stato il secondo, quando arrivai vicino alla foiba mi sono fermato un momento: allora uno che era sulla roccia a 15 metri lontano da me cominciò a sparare col mitra, ma senza mira, e così sparò anche sul ferro che legava il mio sasso, mi sono buttato dentro la foiba e caddi nell'acqua, sprofondando forse dei metri sotto e sempre con le mani legate; cominciai a nuotare con le gambe finchè mi sono avvicinato sotto la roccia e sono rimasto sotto sotto, fermo finchè buttarono gli altri quattro miei compagni..."

Il sottotenente Graziano Udovisi, non è stato riconosciuto invalido di guerra, non gli è stato riconosciuto neanche il grado, né il servizio militare prestato, quindi non ha potuto ottenere la pensione di guerra e non percepisce alcunchè. In compenso lo Stato italiano elargisce la pensione ai suoi infoibatori... Con puntualità e con continuità. In dollari. E con reversibilità al 100 per cento, secondo la proposta della misericordiosa Tina Anselmi.

Con grande coerenza lo Stato italiano non ha riconosciuto l'invalidità di Giovanni Radeticchio, che è stato costretto ad emigrare in Australia. In compenso lo Stato italiano accoglie ogni anno in Italia decine di migliaia di immigrati di ogni colore.
Come ci ha spiegato Marco Pirina, 150.000 italiani, esuli dalle terre invase dagli slavi, non hanno trovato posto in Italia.
Ha dichiarato Graziano Udovisi nell'intervista succitata:
"...quando siamo venuti qui in Italia siamo stati abbandonati in varie zone, in ex-campi di concentramento, trattati peggio dei profughi".
Dobbiamo riconoscere che provvidenzialmente l'emigrazione di quei 150.000 ha lasciato più spazio per i nuovi immigrati: gente molto più gradita ed assistita convenientemente. C'è chi pensa di dare a costoro il diritto al voto.
Questo potrebbe spiegare molte cose.

Andrea Arpaja

 

Note

1) Nei territori italiani della RSI, pur essendo rimasti in carica i prefetti, (chiamati capi della provincia), i podestà, i segretari federali del PFR (Partito Fascista Repubblicano), i tedeschi dopo aver scacciato l'esercito partigiano comunista di Tito, che aveva invaso quelle terre subito dopo l'otto settembre, costituirono la "Zona d'Operazioni Litorale Adriatico", che, attraverso il Gauleiter Rainer, austriaco, sovrintendeva all'attività amministrativa della zona per coordinarla  con le esigenze militari, non nascondendo completamente sogni nostalgici di restaurazione asburgica. In tale contesto va inquadrata la funzione della G.N.R., Guardia Nazionale Repubblicana, che prese il nome in quella zona di M.D.T., Milizia Difesa Territoriale, e che inquadrava , come avveniva nel resto della GNR, ex carabinieri, guardie di finanza, militi della ex Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale di guardia di frontiera, nonchè volontari. I legionari della MDT vestivano tutti la stessa divisa (con la camicia nera) della GNR della RSI, da cui dipendevano. Erano inquadrati da ufficiali italiani e venivano impiegati per la difesa del territorio soprattutto dalle puntate dei partigiani comunisti slavi frammisti a comunisti italiani agli ordini di Tito.

2) Graziano Udovisi, Foibe: testimonianza di un sopravvissuto, in "l'Ultima Crociata", anno XLII - n° 9 - nov. 1992.

3) G. Bedeschi, La popolazione italiana in guerra, Vol. 1, Mursia, Milano, 1987, di G. Udovisi, Madonna, Madonna mia, è la foiba!, pagg. 131-137.

4) Archivio Papo: Albo d'Oro, cartella 4, n° 2163; Documentazioni sui deportati in Jugoslavia; Racconto di Radeticchio Giovanni, scampato dalla morte in una foiba, doc. 14. Giovanni Radeticchio, prima esule in Italia, non avendo trovato lavoro dai fratelli italiani, fu costretto ad emigrare in Australia, dove, consunto dai postumi delle ferite e delle contusioni degli organi interni, nonchè dagli stenti, nel 1970 fu facile preda di un infarto.

Andrea Arpaja è nato a Pola il 6/9/31; fino al novembre 1944 si trovava a Gorizia, da dove raggiunse, con gli altri suoi familiari, il padre, colonnello di artiglieria che, avendo aderito alla RSI, era stato destinato al Comando Deposito della Divisione "Italia". Il giovanissimo Andrea si arruolò a Milano nelle "Fiamme Bianche".
In seguito si è interessato  alle vicende dei suoi concittadini conterranei istriani, anche per lasciare ai posteri un resoconto sulla sorte toccata a questi esuli e sulla trasformazione forzata che gli slavi hanno imposto a quelle terre invase. Si interessa anche di ricerche storiche e politiche , con particolare riguardo a fatti inerenti la seconda guerra mondiale.

 

 


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