L'esodo

Intervento di Arno De Vescovi 

Sono uno dei 350 mila Italiani che tra il 1944 e il 1954 hanno dovuto lasciare le terre di origine in Venezia Giulia e Dalmazia. Ciò, in ottemperanza di decisioni assunte da altri. Noi non siamo mai stati interpellati.
Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero che le terre dove eravamo nati e cresciuti, e dove il sentimento di italianità era il fattore più radicato, non dovessero più appartenere all'Italia.
Ad avvalorare questo sopruso, a Parigi era stato addirittura deciso di inviare nella Venezia Giulia una Commissione composta da americani, inglesi, russi e francesi, col mandato di portare alla Conferenza di pace, dove si stava decidendo sul trattato con l'Italia, un rapporto circa storia, etnia ed organizzazione sociale di quelle terre che erano reclamate come proprie dal Maresciallo Tito.
Questa Commissione venne e vide, ma fece un lavoro molto superficiale, addirittura manicheo. Io ero a Fiume, avevo undici anni, ma ricordo che i commissari vennero una mattina, si chiusero nelle stanze di un ufficio e ripartirono la sera stessa senza aver fatto neppure un giro per la città e senza aver parlato neppure con un abitante.
Il loro rapporto fu completamente falso, perché nulla udirono e guardarono senza vedere. I sovietici, che all'epoca erano in ottimi rapporti con Tito, diedero il massimo appoggio alle sue richieste. Americani ed inglesi, dal canto loro, erano assai superficiali ed erano interessati a chiudere nel più breve tempo il trattato di pace con l'Italia.
Di conseguenza, il 10 febbraio 1947 venne frettolosamente firmato un vero e proprio “diktat”con cui si statuiva che l'Istria, Fiume, Pola e Zara venivano sacrificate integralmente; che Gorizia veniva tagliata a metà, con cimiteri e case divisi in due; che Trieste veniva costituita in Territorio Libero.
Per noi di Fiume, Istria e Dalmazia il discorso era definitivamente chiuso. Addirittura, l’Assemblea Costituente, qualche mese dopo, avrebbe ratificato l’imposizione, ed il trattato sarebbe entrato definitivamente in vigore il 15 settembre. Davvero, non c'era più niente da fare.
Ce ne andammo, come detto, in 350 mila, pari ad oltre nove decimi della popolazione. Non potevamo accettare l’ukase, a prescindere dal fatto che non eravamo stati neanche interpellati. Io abitavo con la mia famiglia a Fiume, e per noi italiani, che già avevamo vissuto gli anni durissimi della guerra, incominciò una nuova tragedia.
Comandavano gli slavi, ed avevano cominciato a perseguire il loro piano di impossessarsi dell'Istria per arrivare a Trieste, se non addirittura al Tagliamento.
La gente era naturalmente scossa da questo stato di cose.
Non eravamo più italiani e c'era il serio pericolo, qualora avessimo dichiarato le nostre idee, di fare una brutta fine: potevamo finire nelle foibe!
In città si sapeva ben poco di quanto accadeva fuori.
Ma sapevamo con certezza di persone che abitavano nella porta a fianco e che sparivano all’improvviso, senza alcuna notizia sulla fine che avessero fatto. Si supponeva, si immaginava, qualche voce arrivava, ma non si avevano conferme.
Forse, il nostro vicino era stato prelevato nella notte, portato in prigione, e dopo una parvenza sommaria di processo si era provveduto alla sua “sparizione”.
Nella mia famiglia si viveva nella paura perché, essendoci sempre professati italiani e sostenitori dell'Italia, potevamo subire la stessa oscura sorte, e sparire anche noi in una notte qualunque. Quindi, giova ripeterlo, siamo dovuti andare via in 350 mila.
Di questo nostro Esodo ci sono, purtroppo, pochi documenti e pochissime immagini. La sola eccezione è quella di Pola, che era gestita dagli Alleati, e di cui sono rimaste testimonianze filmate e fotografiche, con particolare riguardo alle partenze del “Toscana” per Ancona e Venezia. E’ sempre commovente rivedere i profughi salire sulla nave che li avrebbe portati via dalla propria terra.

Io, che ho vissuto da bambino il trasferimento su camion da Fiume a Trieste, posso solo conservare nella mente quel terribile ricordo.
Conservo sempre un documento con cui l'autorità slava mi autorizzava a rimpatriare. Si tratta di un foglio ciclostilato con tre parole e la mia fotografia, che è stato per tanto tempo la mia carta d'identità. Era riconosciuto dagli Alleati che occupavano Trieste, ma io mi vergognavo a mostrarlo. Io, italiano, con quel pezzo di carta in slavo!
All’epoca avevo un'età che non mi consentiva di dare testimonianze dirette sulle foibe, ed in famiglia non ho avuto, per nostra fortuna, chi sia stato coinvolto in questa tragedia.
Col passare degli anni, invece, ebbi modo di seguire, quando già frequentavo il liceo, il cosiddetto “problema di Trieste”. Eravamo nella prima metà degli anni Cinquanta e la questione era di scottante attualità: a seguito del trattato di pace, la città di San Giusto era stata inclusa nella Zona “A” del Territorio Libero, affidato agli Alleati, mentre la Zona “B”, con Capodistria, Isola e Buie, era stata attribuita all’amministrazione jugoslava, cosa che ne aveva già anticipato il destino.
Potevamo solo seguire lo sviluppo dei rapporti internazionali ed aspettare una soluzione definitiva.
Gli Italiani volevano Trieste, ma gli slavi non erano da meno. Nel 1953 vi furono momenti di forte tensione quando il Governo di Giuseppe Pella fece schierare il nostro esercito presso il confine.
Io, da studente liceale, feci dieci ore di fermo nella guardiola della Questura, con la sola colpa di aver partecipato alle manifestazioni studentesche per Trieste.
Ricordo il nostro entusiasmo e gli slogan inneggianti alla possibile soluzione nazionale del problema.
Ma si parlava solo di Trieste: quella di Istria e Dalmazia, ormai, era considerata una questione chiusa.
La vicenda si sarebbe parzialmente conclusa col Memorandum d'intesa firmato nel 1954, con il quale l'Italia ebbe finalmente modo di tornare a Trieste, mentre la Zona “B” restava affidata alla Jugoslavia sebbene in linea giuridica rimanesse ancora italiana. Era un compromesso, che consentiva agli Alleati di chiudere l’esperienza del GMA, in cui avevano perso tempo e denaro, e di tornare a casa.
Per chiudere la partita si sarebbe dovuti arrivare al 1975. quando il trattato di Osimo statuì la definitiva rinuncia italiana alla Zona “B”, oltre tutto senza alcuna contropartita! Fu un vero e proprio tradimento: oltre tutto, Trieste rimaneva senza alcun retroterra, mentre Gorizia restava tagliata in due.
Di foibe non si parlava più o per essere più precisi, se ne parlava solo nel ristretto ambito dei circoli giuliani e dalmati. Nel resto d’Italia l’oblio era sempre più profondo.
Non c'erano libri, giornali o canali televisivi che facessero luce sul nostro dramma.
Doveva cadere il muro di Berlino nel 1989 perché la questione delle foibe venisse alla ribalta.
E ricordo con precisione che le prime informazioni, a cominciare da quelle televisive, non furono di parte italiana, ma straniera. Addirittura, furono amici svedesi a farmi vedere un documentario sulle foibe! Del pari, analoghe attenzioni ci vennero dedicate dalle reti elvetiche.
Solo più tardi, in Italia andarono in onda riprese di Combat Film girate nel 1944 e nel 1945 dai cineoperatori americani al seguito delle loro truppe: e per la prima volta vedemmo cose che non avevamo mai visto. Naturalmente, non le vedemmo solo noi, ma tutti gli italiani ebbero modo di scoprire un dramma che non conoscevano o che era stato accuratamente oscurato.
Ed ecco che - finalmente - ci sono stati servizi giornalistici ed inchieste su quei dolorosi fatti lontani.

Ora, credo utile portare una mia testimonianza personale.
Dopo l'otto settembre, il Reich decise che tutto il Litorale Adriatico sarebbe stato amministrato da Governatori tedeschi, pur riconoscendo che il suo territorio apparteneva sempre alla RSI. Noi tememmo di cambiare nazionalità in favore della Germania, ma ci confortava vedere le pattuglie della Decima che presidiavano la nostra città e simboleggiavano la nostra Patria. C'erano anche i Carabinieri e la Guardia di Finanza, ma si trattava di presenze più discrete.
Per la strada, oltre alle formazioni ed ai mezzi blindati della Wehrmacht, c'erano solo gli uomini della Decima: vederli ci dava sollievo e ci induceva a sperare.
Di questi valorosi Soldati Italiani, ben pochi tornarono a casa. Appena giunsero gli slavi, chi era sopravvissuto ai combattimenti venne eliminato in modi barbari ed efferati. E per noi civili ebbe inizio una penosa odissea.
Siamo finiti in 109 campi di raccolta distribuiti in tutto il territorio italiano, dalle Alpi alla Sicilia. Noi fummo destinati a quello di Vicenza.
Anche a questo proposito, c'è un particolare di cui desidero dare atto.
Il 18 aprile 1948 erano in programma le elezioni politiche per l’elezione del primo Parlamento repubblicano. Grande era l'incertezza su quanto avrebbe potuto accadere: si temeva che il Fronte Popolare, egemonizzato dai comunisti, potesse uscirne vincitore.
Ebbene, noi venimmo chiusi per tre giorni nel campo profughi! Non potevamo uscire ed agli angoli dell'edificio vennero posti quattro blindati perché c'era il pericolo che, nel caso di vittoria del Fronte, i comunisti potessero avere reazioni violente contro di noi. Infatti, anche a Vicenza costoro avevano accreditato la tesi secondo cui non eravamo profughi italiani che avevano perduto tutto, ma pericolosi “fascisti” da eliminare. Tanto poteva la solidarietà internazionale con Tito! Dopo l’esperienza del campo ci trasferimmo a Napoli, dove ho concluso gli studi, ho trovato lavoro e mi sono sposato.

Per ultimo, voglio ricordare quanto disse il Presidente Ciampi parlando ai giovani: imparare la storia d'Italia è un dovere civile, non solo studiando sui libri, ma ascoltando dai nonni, dai genitori, dai testimoni, quanto sui libri non è scritto.
Poco prima, in un servizio televisivo, avevo udito lo speaker parlare del nostro Esodo, circoscritto per l’occasione e 200 mila profughi. Ma non eravamo stati 350 mila?
Cosa dobbiamo dire alle nuove generazioni? Che si cerca ancora di minimizzare e di ridurre le dimensioni di un’immensa sciagura?
E’ triste doverlo sottolineare, ma noi giuliani e dalmati, dopo aver perduto la nostra terra, dobbiamo subire la falsificazione della storia, e persino delle cifre.


Arno De Vescovi, Esule fiumano. è stato Presidente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Comitato Provinciale di Napoli).


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