Gli infoibatori “premiati” dall'Inps

Contributo di Benedetta de Falco al convegno “Foibe – La storia in cammino verso la verità”, organizzato dall’I.S.S.E.S. in Napoli, il 28 gennaio 2001. 

L'Inps eroga quasi trentaduemila pensioni a cittadini italiani residenti nell'ex Jugoslavia spendendo circa duecento miliardi di lire l'anno (convenzione italo-yugoslava sulle pensioni (1957) ratificata l'11 giugno 1960, entrata in vigore il 1 luglio del 1960, rinnovata tacitamente). Fra questi pensionati che hanno diritto alla "pensione minima" si nascondono alcuni responsabili della pulizia etnica perpetrata dai partigiani comunisti del maresciallo Tito ai danni degli italiani alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Crimini di guerra che hanno fatto sparire per sempre, nelle foibe, migliaia di persone e hanno provocato un esodo di trecentocinquantamila italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia. Fino ad oggi lo Stato italiano ha sborsato, a dispetto delle denunce, delle interrogazioni parlamentari e delle inchieste della magistratura, oltre cinquemila miliardi di vecchie lire a tutto beneficio di sospettati, indagati e condannati in contumacia. Gli infoibatori "premiati" dall'Inps risultano essere: Ciro Raner, Nerino Gobbo, Franco Pregelj, Giorgio Sfiligoi, Oscar Piskulic, Ivan Motika, Giuseppe Osgnacco, Guido Climich, Giovanni Semes e Mario Toffanin. Ma andiamo a vedere chi sono e di quali crimini si sono macchiati.
Ciro Raner, ottantatreenne, residente in Croazia (pensione Inps pari a lire 569.750 per tredici mensilità) è stato comandante, dal maggio del 1945 al marzo del 1946, del campo di concentramento di Borovnica, vicino Lubiana, nel quale furono deportati oltre duemila italiani, in gran parte militari che si erano arresi. "Eravamo in fila con uno scodellino per avere un mestolo d'acqua sporca e patate, quello davanti a me cercò per fame di raschiare il fondo della pentola. Subito la guardia partigiana lo colpì con una fucilata trapassandogli il torace. Arrivò il Raner che, dopo aver preso la mira, diede il colpo di grazia al ferito sparandogli alla nuca". Questo il racconto di Giovanni Prendonzani, sopravvissuto a Borovnica e ancora in vita a Trieste, città nella quale rilasciò la sua testimonianza ai Carabinieri. Sempre del lager di Borovnica, altri testimoni hanno ricordato: "Il 15 maggio 1945 due lombardi, per essersi allontanati duecento metri dal campo, furono richiamati e martorizzati col seguente sistema: presi i due e avvicinati gomito a gomito li legarono con un filo di ferro fissato per i lobi delle orecchie precedentemente bucate a mezzo di un filo arroventato. Dopo averli in questo senso assicurati tra loro li caricavano di calci e di pugni fino a che i due si strapparono le orecchie. Come se ciò non bastasse furono adoperati come bersaglio per allenare il comandante (Raner) e le drugarize (sentinelle) che colpirono i due con molti colpi di pistola lasciandoli freddi sul posto". Questo racconto è contenuto nel documento numero 62, archiviato nella stanza 30 al primo piano del ministero degli Affari Esteri e consegnato al giudice Giuseppe Pititto, pubblico ministero nel processo contro Piskulic.
Nerino Gobbo, settantanovenne, residente in Slovenia (pensione Inps pari a lire 532.500 per tredici mensilità) è stato nel periodo maggio/giugno del 1945 responsabile di Villa Segré a Trieste, luogo di tortura delle milizie titine. Noto con il nome di "comandante Gino", ricoprì l'incarico di commissario del popolo delle milizie di Tito che avevano occupato il capoluogo giuliano il primo maggio del 1945 con il IX Corpus. Silvana Spagnol, membro del Comitato di liberazione nel capoluogo giuliano, già aveva denunciato agli Alleati (1946) la scomparsa della professoressa di lettere del liceo Petrarca, Elena Pezzoli, membro della resistenza. "Il 20 maggio 1945, Elena Pezzoli era tradotta in macchina da agenti in borghese a Villa Segré, sede del commissariato del secondo settore dipendente dalla Difesa popolare (le milizie degli occupanti titini). La Pezzoli fu torturata nella notte del 21 maggio e si sono uditi i lamenti e i rumori di cinghia. Il giorno 9 giugno la Pezzoli era scomparsa e con lei il comandante Gino, Nerino Gobbo". Questo il contenuto della denuncia acquisita dalla magistratura di Roma e che risulterà anche acquisita dalla sentenza del 17 gennaio 1948 della Corte d'Assise di Trieste, nella quale i giudici scrissero: "Dopo qualche giorno tutta la squadra si trasferiva a Villa Segré assumendo il nome di squadra volante, e passava alle dirette dipendenze del commissario del popolo, Gino, di nome Nerino Gobbo. Come risultò dalle deposizioni dei testi tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda e persino a mettere la testa nel secchio delle feci". Gobbo fu condannato in contumacia a 26 anni di reclusione.
Franco Pregelj, ottantenne, residente in Slovenia (pensione Inps pari a lire 569.650 lire per tredici mensilità) è stato commissario politico del IX Corpus del maresciallo Tito a Gorizia. Dal primo maggio al 9 giugno del '45 Pregelj, denominato il comandante "Boro", fu il commissario politico del IX Corpus dell'esercito partigiano jugoslavo, che aveva occupato Gorizia. Dei novecento italiani deportati dal capoluogo isontino, seicentosessantacinque non tornarono più a casa. Fra gli scomparsi anche Licurgo Olivi e Augusto Sverzutti, entrambi esponenti del Comitato di Liberazione. "La mattina del 5 maggio 1945 furono invitati a salire su una macchina, sulla quale c'era anche il professor Mulitsch e il commissario Boro. Giunti in piazza della Vittoria il professor Mulitsch fu fatto scendere mentre la macchina proseguì verso il palazzo Coronini (comando del IX Corpus titino a Gorizia). Da allora non sono più tornati". Questa la denuncia dei familiari di Sverzutti nel 1946 alla Questura del capoluogo isontino. Emilio Mulitsch, responsabile del CLN di Gorizia, confermò l'accaduto con una relazione conservata nell'Ufficio storico del PCI (documento 4004, pagg. 1-4, reg. C). Lo studioso pordenonese Marco Pirina ha trovato negli archivi sloveni i numeri di matricola di Sverzutti (n. 1728) e Olivi (n. 1799), deportati nel carcere di Lubiana, un ex manicomio. L'ultima registrazione del 30 dicembre 1945 indica che i prigionieri furono trasferiti verso "ignote destinazioni". Il 9 gennaio del 2002 la Procura militare di Padova ha notificato un avviso di garanzia a Franco Pregelj, quale uno degli autori delle stragi che accompagnarono l'occupazione di Gorizia da parte delle forze paramilitari comuniste slovene, tra maggio e giugno del 1945. Un'informazione di garanzia con le accuse di violenza con omicidio contro prigionieri e civili italiani. Il provvedimento è stato firmato dal sostituto procuratore militare Sergio Dini che conduce l'inchiesta sulla scomparsa di alcune centinaia di italiani avvenuta in quei mesi nella città isontina e che furono vittime degli eccidi compiuti dalle forze comuniste legate a Tito. Il procuratore Dini ha inoltrato alle autorità slovene e jugoslave richieste di documentazione per poter ricostruire pienamente la struttura del corpus sloveno e stabilire quale fu l'effettivo ruolo dell'indagato nella struttura.
Giorgio Sfiligoi, settantaquattrenne, residente in Slovenia, (pensione Inps pari a lire 571.850 per tredici mensilità) è stato collaboratore del IX Corpus jugoslavo. Meglio noto con il nome di "Sergio", Sfiligoi fu utilizzato (1944/1945), dal IX Corpus del maresciallo Tito, come "deportatore" di italiani. "Il 29 aprile 1945 Sfiligoi Giorgio prelevò, presso le proprie abitazioni le seguenti persone: Brurnat Marino, Bullo Giuseppe, Tavian Giovanni, Ronea Enrico, Gasparutti Rodolfo e Pascolat Francesco. All'insaputa del locale Comitato di liberazione furono trasferiti, la notte del 30 aprile a Idria, dove furono consegnati ai partigiani sloveni. Il 1 maggio successivo Monsignor Angelo Magrini si recò ad Idria, ove ottenne la liberazione dei catturati, i quali fecero ritorno a Cormons presso le loro abitazioni. Nella notte del 6 maggio 1945, i predetti sventurati furono nuovamente prelevati dallo Zulian Nerino, dal Marini Clodoveo e dallo Sfiligoi Giorgio e trasportati - a mezzo di un autocarro - a Caporetto e là consegnati allo Zulian Mario che li freddò". Ciò è quanto si legge nell'esposto del Commissariato di pubblica sicurezza di Cormons del 10 maggio 1949.
Oscar Piskulic, ottantatreenne, residente in Croazia (pensione Inps: dato non disponibile), conosciuto con il nome di "Zuti" ("il giallo", dal colore del fondo dei suoi occhi), è stato capo dell'Ozna, la polizia segreta di Tito, a Fiume dal 1943 al 1947. L'avvocato Augusto Sinagra, che con la sua denuncia avviò l'inchiesta sul genocidio delle foibe, accusò proprio Piskulic e altri funzionari dell'Ozna. Alla Procura di Roma sono stati consegnati 553 nomi di connazionali uccisi o scomparsi nel capoluogo quarnerino e dintorni, dal 3 maggio alla fine dei 1945. "I familiari di alcuni degli uccisi essendosi recati, spinti all'angoscia, alla sede dell'Ozna a Fiume dove erano raccolti i cadaveri, avevano constatato che i funzionari a cui si erano rivolti erano i medesimi individui che erano penetrati nelle loro case per prelevare i congiunti poi uccisi. In tal modo l'uomo e la donna che avevano diretto il prelevamento dell'ex deputato della Costituente Sincich vennero identificati nel capo dell'Ozna Oscar Piskulic e nella sua amante". Questa la testimonianza di Luksic Lanini, membro del CLN di Fiume, consegnata alla Procura di Roma. Il processo d'appello contro Piskulic è ancora in corso presso la prima Corte d'Assise di Roma e il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba ha chiesto (lunedì 21 ottobre 2002) per "Zuti" la condanna all'ergastolo.
Ivan Motika, deceduto, soprannominato "il boia di Pisino", morto prima del processo, è stato pubblico accusatore per l'Istria dal 1943 al 1947. L'8 settembre del 1943 l'esercito italiano era allo sbando su tutti i fronti. In Istria ne approfittarono i partigiani di Tito conquistando diverse cittadine. Secondo numerose testimonianze di familiari delle vittime, Ivan Motika ricopriva il ruolo di "giudice del popolo", e pertanto decideva il destino degli italiani. Il castello di Pisino era diventato in quei giorni prigione e quartier generale dei partigiani di Tito, il cui luogotenente era proprio Ivan Motika. Nel castello si svolgevano i cosiddetti "processi" del "Tribunale del Popolo", presieduto dallo stesso Motika, che sentenziava a decine o centinaia le condanne a morte degli italiani. Il 30 ottobre i resti di due congiunti, imprigionati da Motika, furono riportati alla luce da una cava di bauxite a Villa Bassotti. "Erano nudi, le mani legate con il filo spinato ed erano stati tagliati i genitali e levati gli occhi. In tutto si ricuperarono 23 salme" così si legge nella deposizione alla Procura di Trieste di Leo Marzini, figlio e nipote dei due congiunti rinvenuti. La deposizione è stata inviata alla Procura di Roma assieme ad altre testimonianze, fra le quali vi è quella di Nidia Cernecca che ricorda ancora il padre decapitato su ordine di Motika.
Giuseppe Osgnacco, settantanovenne, residente in Slovenia (pensione Inps pari a lire 569.750 per tredici mensilità) è stato comandante militare della banda partigiana Beneska Ceta dal 1944. Meglio conosciuto con il nome di "Josko", ex sergente dell'esercito italiano, era il comandante militare della banda partigiana Beneska Ceta fin dal 13 agosto 1944. La formazione operò nelle Valli del Natisone con l'obiettivo dichiarato di annettere più territorio possibile della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito. Nel 1959 fu istruito un processo contro gli appartenenti alla Beneska Ceta, ma l'amnistia, promulgata da Palmiro Togliatti nel 1946, fece sì che fosse dichiarato il non luogo a procedere. Nella nuova inchiesta la Procura di Roma ha, invece, sancito che i reati di strage ai danni della popolazione italiana, con finalità di pulizia etnica, non possono andare in prescrizione. Le testimonianze raccolte da Giuseppe Vasi, un udinese che ha dedicato gran parte della sua vita a ricostruire i drammatici giorni della guerra sui confini orientali, sembrano confermare che la Beneska Ceta si macchiò di orribili massacri. "Sono state almeno quaranta le persone ammazzate nei boschi circostanti le Valli del Natisone tra militari tedeschi, fascisti e anche civili". Ma la sorte più terribile toccò a due giovani carabinieri, secondo la testimonianza oculare di Giovanni Lurman consegnata alla Procura di Roma. "I partigiani ordinarono loro di spogliarsi, li legarono mani e piedi e li spinsero nella buca. Loro piangevano dentro e mano a mano che buttavano terra e sassi si sentiva che urlavano" racconta Lurman che ammette di averli disseppelliti personalmente un mese dopo, all'arrivo delle truppe "alleate" (1945), riscontrando che almeno uno dei militari non aveva la benché minima ferita e quindi era morto dopo essere stato sepolto vivo.
Guido Climich, settantottenne, residente in Croazia (pensione Inps: dato non disponibile) è stato il responsabile dell'Ozna di Pisino (Istria) nel 1945. Nome di battaglia "Lampo", Guido Glimich era, alla fine della guerra, il temuto capo della polizia segreta di Tito a Pisino nella penisola istriana. L' "Associazione famiglie deportati in Jugoslavia" raccolse numerose dichiarazioni sulla sparizione degli italiani, poi consegnate alla questura di Gorizia. "Mio figlio Mechis Giovanni fu prelevato il 3 maggio del 1945 dai partigiani titini, con altri otto paesani furono interrogati da un funzionario dell'Ozna, Guido Climich. Circa il 25 o il 28 maggio furono portati a Montona e racchiusi nelle carceri. Il 12 giugno del 1945 un folto gruppo di prigionieri fu prelevato di notte. Pochissimi fecero ritorno e io non seppi più nulla di mio figlio" scrisse Antonio Mechis il 25 giugno del 1949.
Giovanni Semes, ottantatreenne, residente in Croazia (pensione Inps: dato non disponibile), è stato comandante militare di Zara e capo della polizia segreta di Tito dal 1944 al 1945. Il generale Semes, che occupò Zara il 31 ottobre 1944, era comandante militare della piazza e capo della polizia segreta di Tito nella zona. Il giornale croato "Narodni List" ha pubblicato, cinquant'anni dopo, il bando di fucilazione degli abitanti del quartiere di Borgo Erizzo e di altri zaratini. Ventinove italiani erano compresi nel bando firmato dal generale Giovanni Semes, ma altri "settantatre non hanno avuto la fortuna di essere giudicati perché sono finiti nella fossa marina dell'isola Lavernata nell'arcipelago delle Coronarie" scrisse Ivijca Matesie in un'inchiesta giornalistica, acquisita agli atti dal pubblico ministero di Roma. Inoltre, lo studioso Marco Pirina ha segnalato alla Procura di Roma la relazione del secondo reparto della Regia Marina del 20 giugno 1945, conservata presso l'Archivio Centrale dello Stato, che conferma questi tragici fatti imputabili al generale Semes.
Mario Toffanin, deceduto, residente in Slovenia fino a prima della morte (pensione Inps pari a lire 672.270 per 13 mensilità) è stato comandante dei Gruppi armati partigiani - Gap - nell'alto Friuli e nella provincia di Gorizia. Conosciuto con il nome di "Giacca", Toffanin è il responsabile della strage di Porzus sui monti friulani. Fra l'8 il 13 febbraio del 1945 massacrò con i suoi uomini - tutti partigiani garibaldini rossi - ventidue combattenti della Resistenza della brigata "Osoppo", che si opposero all'annessione alla Yugoslavia della Venezia Giulia. Nel 1957 Toffanin fu condannato all'ergastolo per l'eccidio di Porzus, ma si nascose prima in Yugoslavia e poi in Cecoslovacchia. Nel 1978 venne graziato dal presidente Pertini.


L'inchiesta sulle pensioni Inps agli infoibatori è stata condotta dal sito http://foibe.monrif.net/

 


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