Cenni Storici (1915/1945) sull’Istria e la Dalmazia

Comunicazione di Francesco Pavolini al convegno “Foibe – La storia in cammino verso la verità”, organizzato dall’I.S.S.E.S. in Napoli, il 28 gennaio 2001. 

Il 26 aprile 1915  l’Italia, che aveva deciso di entrare in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, firmò a Londra il famigerato patto che assegnava in caso di vittoria, oltre il confine al Brennero, tutta l’Istria con Trieste e Gorizia, nonché la Dalmazia.Erano compresi anche altri compensi, che non furono mai assegnati e che ritengo qui inutile di citare. Dopo la vittoria le potenze vincitrici si sedettero a Versailles al tavolo della pace, dove l’Italia richiese l’applicazione delle clausole del patto sottoscritto a Londra, però vi erano stati dei cambiamenti tra le potenze vincitrici e i firmatari del patto. In particolare l’impero zarista non esisteva più e non partecipava quindi ai negoziati di pace, vi era invece una nuova potenza: gli Stati Uniti che non avendo firmato il patto non si sentiva vincolata dalle clausole in esso contenute. Il presidente degli USA, Woodrow Wilson si presentò alla conferenza con i famosi 14 punti, tra i quali spiccava il principio della nazionalità per cui se un territorio era a prevalenza abitato da una data etnia, questa popolazione doveva avere la possibilità di essere assegnata alla nazione che più le era vicina per lingua costumi e religione. L’applicazione di questo punto era praticamente impossibile nei territori dell’ex Impero Asburgico, poiché le varie etnie erano talmente mischiate che perfino in uno stesso paese o in un isola non era possibile avere una sola popolazione compatta per lingua o religione. Il presidente americano decise di applicare il suo principio di nazionalità proprio nei confronti dell’Italia per le regioni dell’Istria e della Dalmazia. Purtroppo l’Italia fece una politica sbagliata rivendicando in base al principio “Pacta sunt servanda” l’applicazione del Trattato di Londra ed invocando nello stesso tempo, in base al nuovo principio della nazionalità, la città di Fiume che era abitata in gran parte da elementi di lingua italiana e che non era stata inclusa nel trattato in questione.
            E’ stato spiegato che la ragione per la quale l’Italia non incluse Fiume tra le proprie rivendicazioni nel trattato di Londra, stava nel fatto che, al tempo, non si prevedeva la dissoluzione dell’impero asburgico e quindi si doveva lasciare almeno un porto importante a questo stato, dal momento che Trieste sarebbe stata riunita alla madrepatria.
            Fatto sta che, un po’ per le pressioni idealistiche di Wilson, un po’ per le manovre interessate della Francia, che desiderava formare una media potenza per ostacolare l’espansionismo italiano nei Balcani, alla fine la Dalmazia fu assegnata all’allora nascente Regno dei Serbi dei Croati e degli Sloveni. Solo la città di Zara ed alcune isole minori furono concesse all’Italia, in quanto in questa città l’elemento italiano era ancora in maggioranza. L’Italia che pur occupava militarmente la regione fu costretta a ritirare le proprie truppe al comando dell’ammiraglio Millo, famoso per aver forzato i Dardanelli nella guerra Italo-Turca. Nella Dalmazia i nostri connazionali all’epoca, erano in minoranza rispetto agli slavi, però erano stati sempre prevalenti nelle città almeno fino al 1870. In seguito l’amministrazione asburgica attuò una politica di snazionalizzazione nei confronti dell’elemento italiano, allargando i perimetri cittadini per includere gli slavi del contado e favorendo la formazione di scuole croate a scapito di quelle esistenti che erano tutte italiane. L’italiano costituiva la lingua di cultura e prima che il croato fosse, a tavolino, innalzato alla dignità di lingua, perfino il giornale nazionalista di questa etnia era scritto in italiano e si chiamava il “Nazionale”. Penso che sia inutile ricordare l’influenza che ebbe Venezia su questi territori che, anche per la loro natura geografica, sono stati sempre divisi dall’entroterra. Anche nell’antichità la Dalmazia era separata linguisticamente dagli slavi in quanto in questa regione si parlava una lingua romanza: il dalmatico che scomparve sostituita dalla parlata veneta. A riprova di quanto la nostra cultura fosse diffusa e predominante valga il fatto che la lingua ufficiale della regione, sotto il dominio austriaco, era l’italiano e non è un caso che il più grande filologo del secolo XIX, Niccolò Tommaseo fosse nativo di Sebenico. L’Austria, timorosa del nostro irredentismo, portò avanti una politica favorevole agli slavi che ebbe il massimo fautore nell’erede al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando che, come nipote di Francesco II di Borbone, nutriva un’avversione profonda contro il nostro paese. Ritornando ad un altro personaggio che ci era contrario, il presidente Wilson, desidero ricordare un’intervista alla televisione, fatta negli anni 50, ad Emanuele Orlando, uno dei nostri rappresentanti a Versailles, negli anni ‘50. L’on. Orlando in quell’occasione, spiegò che l’atteggiamento filoyugoslavo del presidente americano, derivava dal fatto che la First Lady nutriva una viva simpatia per un diplomatico di quel paese e che la stessa faceva pressioni sul marito, affinché questi favorisse il nascente Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Non so se questo sia solo un pettegolezzo dell’onorevole Orlando e quindi non sia veritiero, però è un dato di fatto che il presidente americano propendeva in modo sfacciato per la Serbia; infatti non solo ottenne, per questo stato la cessione della Dalmazia, che pure un trattato prometteva all’Italia, ma anche riuscì, complice la sempre nostra nemica Francia, a farle annettere anche la regione del Kossovo, in barba ai suoi famosi principi di nazionalità, in quanto questa regione era abitata da una maggioranza albanese. Anche questa annessione fu fatta in funzione anti italiana, poiché, già allora, l’Italia si poneva come potenza protettrice dell’Albania. Di quanti problemi sia sta foriera questa poco saggia decisione è ancor oggi sotto gli occhi di tutti e le conseguenze saranno pagate ancora chissà per quanto tempo.
Alla fine a Versailles  l’Italia ottenne solo l’Istria e la città di Zara, mentre il territorio di Fiume venne eretto a stato libero. In seguito dopo le travagliate vicende dell’impresa dannunziana, culminata nel Natale di sangue, Fiume fu oggetto nel 1924 di una spartizione tra l’Italia e la Yugoslavia. In forza di quest’accordo, detto convenzione di Nettuno, la città di Fiume passò all’Italia, mentre il porto Nazario Sauro ed i dintorni furono annessi alla Yugoslavia. Per gli italiani di Dalmazia, rimasti sotto l’amministrazione slava, iniziarono tempi molto spiacevoli, in quanto oggetto di persecuzioni, angherie e violenze tese a farli abbandonare quei territori che avevano abitato da secoli. Fu così che,  nel periodo tra le due guerre, quasi tutti gli italiani di Dalmazia furono costretti all’esilio. Tra gli esuli più noti vi fu anche il giornalista Enzo Bettiza, la cui famiglia lasciò, negli anni 30, Spalato. Bettiza ha anche scritto un libro: “Esilio” sull’esperienza che visse da ragazzo. C’è da ricordare che la città di Spaiato aveva inviato 7000 firme a Versailles chiedendo l’annessione all’Italia.
            Con lo scoppio della guerra e la successiva occupazione della Yugoslavia da parte delle truppe dell’Asse, la Dalmazia, fino alla città dì Spaiato inclusa, venne posta sotto amministrazione italiana. Purtroppo l’infausto armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò completamente abbandonate a se stesse le popolazioni dell’Istria e della Dalmazia, poiché i nostri reparti dell’esercito si erano dissolti nel generale sfascio del “tutti a casa”. Ne approfittarono subito i partigiani di Tito che ebbero via libera per commettere ogni specie di nefandezze. Furono giorni terribili per tutti gli italiani di quelle regioni che per primi sperimentarono una feroce pulizia etnica, così congeniale ai nostri, poco raccomandabili, vicini slavi.
            Sicuramente Tito doveva essere stato informato dagli Alleati che l’Italia stava per uscire dal conflitto, altrimenti non sarebbe spiegabile la rapidissima conquista dell’Istria compiuta dai suoi uomini. I soldati italiani avevano abbandonato caserme e depositi di materiali e munizioni di cui si irnpossessarono i partigiani slavi. Solo Fiume e Pola, oltre a poche altre località costiere, in cui erano presenti reparti germanici, scamparono all’occupazione titina. Vergognosamente collaborarono con le truppe titine anche numerosi antifascisti che in seguito dovettero amaramente rimpiangere quella decisione. Difatti la “ghepeu“ slava, prima perseguitò gli italiani che occupavano cariche pubbliche e politiche, per cui fu colpita una fascia di persone che andava dai gerarchi fascisti ai postini; in seguito si passò anche agli antifascisti colpevoli anch’essi di essere italiani. Gli italiani arrestati furono sottoposti a dei processi farsa, senza appello, in cui la sentenza era sempre la pena capitale che veniva subito eseguita Si distinsero tra i giudici-carnefici in primo luogo Ivan Motika che sarà poi eletto parlarnentare a Belgrado, nonché Edward Karelly che diventerà ministro degli esteri, ma anche purtroppo alcuni italiani, tra cui Giusto Masarotto, destinato a diventare esponente dell’Unione Italiani dell’Istria, che si distinse nel mandare a morte molti connazionali. In seguito questo spregevole individuo fu accolto in Italia come profugo politico anticomunista. Verso la fine del 1943, sotto la pressione tedesca, che si apprestava a riconquistare l’Istria, cessarono i processi farsa e si trovò un metodo più sbrigativo per uccidere i prigionieri, ossia l’infoibamento. Le vittime venivano portate sull’orlo della cavità, legati l’uno all’altro con filo di ferro e uccise venivano fatte precipitare nella foiba. Altre volte, per maggior crudeltà, si uccideva solo il primo della fila che precipitando si trascinava nell’abisso anche gli altri prigionieri ancora vivi. Nelle località costiere si preferiva invece l’annegamento. I prigionieri legati con filo di ferro ed opportunamente zavorrati, erano gettati a mare. Così morirono i coniugi Luxardo proprietari del famoso maraschino di Zara. L’infoibamento rimase però il sistema di eliminazione preferito, perché più veloce e meno faticoso non dovendosi scavare buche per seppellire i cadaveri, ma anche perché più feroce. Quante furono le persone uccise ed infoibate ? 20.000/30.000? non lo sapremo mai.
            L’unica foiba, oltre quella di Monrupino, rimasta in territorio italiano, quella di Basovizza, ha fornito circa 500 metri cubi di resti umani e, secondo il calcolo di 4 individui per metro cubo, si arriva al numero di 2000 individui assassinati. Questo è l’unico dato certo, poiché le autorità yugoslave non hanno mai permesso
di effettuare indagini sui territori in loro possesso ed hanno sempre rifiutato ogni collaborazione; anzi si sono affrettate a distruggere, nei paesi occupati, gli archivi comunali e gli schedari dell’anagrafe, proprio per impedire ogni indagine che potesse stabilire, sia le persone uccise, sia quanti italiani risiedevano in quelle località. Di questi poveri morti non si è più parlato, perché “politicamente scorretto”, e si è dovuto aspettare fino al 1982, quando dopo 35 anni, un capo di stato italiano ha deposto una corona di fiori alla foiba di Basovizza.L'interno di una foiba
            Dagli aguzzini titini, quando si difendeva la propria italianità, non ci si salvava anche se si era comunisti e si era combattuto a fianco delle truppe slave. Antonio di Bianco e Nicola Carmignani erano partigiani e comunisti, ma poiché si dichiaravano italiani non furono risparmiati ed infoibati anch’essi. Alla fine di ottobre, dopo più di un mese di occupazione litina, i tedeschi inviarono in Istria tre divisioni corazzate SS e due di fanteria. I partigiani comunisti si guardarono bene da effettuare la benché minima resistenza e fuggirono a rotta di collo dalla regione. Con l’arrivo dei tedeschi cessarono le uccisioni indiscriminate, però queste terre non furono restituite all’amministrazione italiana, in quanto i germanici avevano già deciso che questa regione facesse parte della più vasta Zona d’operazioni comprendente anche le province di Gorizia, Udine e Trieste. Un Gauleiter, un certo Reiner, austriacante, fu messo a capo dell’amministrazione di questi territori che furono denominati “Adriatische Künstenland”.
            Il Gauleiter non nascose l’intenzione di riportare ai fasti asburgici in  queste zone che avrebbe voluto facessero poi parte del Grande Reich germanico. Di fatto con l’esclusione di un reparto della X Mas e di alcune unità costiere tutte le unità della RSI furono limitate, nel territorio del “Litorale Adriatico” alla sola GNR, che però prese il nome di MDT, Milizia Difesa Territoriale.
            Gli italiani della Dalmazia che di fatto erano stati inclusi nei Croazia, stettero anche peggio, in quanto i Croati arrivarono perfino a privarli della cittadinanza e furono costretti a chiedere un permesso speciale per poter continuare a vivere nelle loro case. Un estremo tentativo di salvare l’italianità di Zara fu fatto dalla X Mas che inviò alcuni ufficiali per arruolare giovani italiani e svolgere un’azione di propaganda. Si arruolarono infatti moltissimi italiani e fra questi anche molti ragazzini tra cui Sergio Endrigo, destinato a diventare un divo della canzone del dopoguerra in Italia.Una piccola profuga italiana
            Purtroppo gli Alleati non capirono o capirono solo molto tardi, nel marzo del 1945, che l’occupazione di quelle regioni da parte delle truppe slave di Tito avrebbe gravemente nuociuto alle comunicazioni con l’Austria e l’Europa Centrale. Furono date, da parte di Churchill, disposizioni per affrettare l’occupazione di Trieste e delle regioni dell’Istria prima che vi arrivassero le truppe di Tito, ma ormai era troppo tardi. Grazie anche a Palmiro Togliatti, che aveva imposto alle formazioni partigiane italiane, che operavano nella zona, di porsi a disposizione del IX Corpus yugoslavo, la corsa all’occupazione dell’Istria e della Venezia Giulia fu vinta dalle truppe slave che arrivarono per prime a Trieste.
            Zara, isola d’italianità, in un mare croato, aveva subito nel corso del conflitto ben 54 bombardamenti, richiesti da Tito, con la scusa che la città era da considerarsi un’importante base strategica, affermazione priva di qualsiasi fondamento. In questo modo il maresciallo si assicurò la distruzione della città e l’eliminazione fisica del 20% dei cittadini periti sotto le bombe alleate. All’arrivo delle truppe di Tito, la vecchia Zara non esisteva più, i pochi scampati ai bombardamenti furono uccisi o scacciati dalla città. Tutte le vestigia veneziane e di italianità, risparmiate dai bombardamenti, furono cancellate e distrutte, leoni di San Marco inclusi. Così la Zara italiana finì e sorse la nuova Zadar croata. Ufficialmente, alla fine del 1945, nessun italiano era più presente a Zara, eppure a riprova di come sia difficile scacciare ed annullare una cultura superiore, mi fa piacere riferire un paio di episodi. Alcuni anni fa sentii alla televisione un’intervista con il sindaco di Zara che, pur essendo croato, si esprimeva in un italiano perfetto senza accento straniero. E cosa ancora più stupefacente ho sentito, nella notte di Natale, il vescovo di Zara, nella cattedrale, fare un’omelia nella nostra lingua.
Ritornando agli anni tragici dell’occupazione titina c’è da dire che quello che successe a Zara si ripeté un po’ in tutta l’Istria ed a Fiume. La caccia agli italiani, non importa che fossero comunisti o meno, continuò con uccisioni imprigionamenti infoibamenti e stupri, costringendo alla fine più di 350.000 connazionali ad abbandonare le sedi che avevano abitato da secoli. Ma questa è un’altra storia che merita un’altra trattazione.

 

Francesco Pavolini, laureato in Scienze politiche si interessa particolarmente di storia, geografia, etnologia e lingue.
E’ ufficiale dei Carabinieri in congedo. Ha lavorato per un trentennio nelle società del gruppo Mobil occupando varie posizioni tra cui quella di responsabile delle relazioni esterne.
Di famiglia toscana risiede a Napoli dove ha compiuto i propri studi universitari.

 


Torna indietro   Torna in cima