Complicità del Partito Comunista Italiano con Tito

Comunicazione di Rosario Lopa al convegno “Foibe – La storia in cammino verso la verità”, organizzato dall’I.S.S.E.S. in Napoli, il 28 gennaio 2001. 

La revisione della storia, in specie quando sia stata falsata, mutilata e stravolta in conformità alla propaganda politica, è un problema sempre attuale. Le Foibe e l’Esodo dei 350 mila italiani dell'Istria, Fiume e Dalmazia costituiscono, da questo punto di vista, un esempio probante.
Pochi sanno che nel 1941, quando il Premier inglese  Winston Churchill, grande nemico dell'Italia, incontrò a Casablanca il dittatore sovietico Josip Stalin, questi due statisti si divisero disinvoltamente l'Italia in cinque zone d'influenza, con un accordo informale secondo cui i comunisti slavi avrebbero dovuto giungere, addirittura, fino a Milano.
Già in precedenza, prima che il giovane reggente del Regno di Jugoslavia, Paolo Karageorgevic, si schierasse a fianco dell'Asse, il  governo di Sua Maestà britannica aveva avanzato la promessa di concedere alla Jugoslavia medesima, a guerra conclusa, gran parte dell'Italia nord-orientale, almeno fino al Tagliamento.
Alla luce di questi precedenti, era scontato che sorgessero pesanti suggestioni negli slavi ed in particolare nelle ambizioni di Tito, avido di prestigio a buon mercato, e quindi, di spropositate espansioni territoriali.
D’altro canto, in queste manovre il satrapo di Belgrado fu appoggiato concretamente e coscientemente dai comunisti italiani. Costoro, ad onta della propria nazionalità, erano di sentimenti smaccatamente filo-sovietici e pertanto di stretta osservanza cominformista, soprattutto in politica estera, anche se in palese contrasto con diritti e interessi dell’Italia.
In effetti, il PCI diffuse  a Trieste un volantino nel quale invitava la popolazione a favorire l'attività dei titini “che si apprestano, attraverso la Slovenia comunista, a liberare  questo nostro Friuli, che è legato indissolubilmente alla Slovenia stessa da secoli”. Da ciò derivava, secondo la pregiudiziale del PCI, “il diritto dei nostri fratelli sloveni a raggiungere  il sacro confine del Tagliamento”. Un diritto, concludeva il testo, “pienamente giustificato da ragioni storiche, geografiche ed etniche” (sic!).
Quel volantino rispecchiava pienamente la volontà dei vertici del PCI: infatti, il 7 febbraio 1945, giorno della strage di Porzus (dove i partigiani comunisti massacrarono i vertici della “Osoppo”, cioè cattolici, liberali e socialisti, colpevoli di non condividere le rivendicazioni territoriali slave), Togliatti inviò una lettera al Presidente del Consiglio del Regno del Sud, Ivanoe Bonomi, in cui minacciava di “scatenare la guerra civile” se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto controllo la Venezia Giulia al fine di evitare l'occupazione jugoslava e la conseguente annessione.
Se ciò non bastasse, si potrebbe ricordare che il partigiano “garibaldino” Vincenzo Bianchi, dal nome clandestino “Vittorio”, rappresentante del PCI presso il IX Corpus delle bande titine, da poco tornato da un viaggio a Mosca con Togliatti, ricevette una lettera di Edvard Kardelj, ideologo e braccio destro di Tito (ed in seguito Ministro degli Esteri), con l'ordine perentorio di liquidare le formazioni partigiane che in Friuli avessero rifiutato di porsi agli ordini del IX Corpus medesimo. Inoltre, ribadiva che queste milizie avevano avuto l'ordine di occupare non solo l'Istria e Trieste, ma anche Gorizia e tutta quella parte del Friuli di cui fossero riuscite ad impadronirsi prima dell'arrivo delle truppe anglo-americane.
La sporca faccenda si concretò nella tragedia di Porzus dove, come tutti sanno, i partigiani comunisti massacrarono quelli “bianchi”, ed ebbe seguito anche più tardi nella battaglia di Tarnova, dove l'eroico battaglione “Fulmine” della Decima Mas si sacrificò quasi al completo, ma resistette agli assalti del IX Corpus, in cui erano inquadrati anche partigiani italiani passati al servizio di Tito: i cosiddetti “garibaldini”, che peraltro non riuscirono a conquistare Gorizia. La città isontina, grazie al sacrificio del “Fulmine” e di qualche altro reparto della Repubblica Sociale, restò italiana.
Già prima, il 14 ottobre 1944, Togliatti, dopo un incontro con Kardelj, aveva confermato ledirettive diramate dal PCI ai giuliani, aggiungendo l'esplicita raccomandazione ai comunisti locali di collaborare “in tutti i modi” con gli slavi colpendo “senza pietà” tutti coloro che si fossero opposti all'invasione titoista.
E va ricordato, ancora, che i comunisti italiani, a Trieste e nelle altre zone controllate dagli slavi, obbedendo ciecamente agli ordini del Partito  Comunista, collaborarono attivamente alla cattura degli italiani, guidando i partigiani titini, che non erano a conoscenza dell'ambiente e dei suoi abitanti, fino alle case di tutti coloro che erano rimasti fedeli  alla Patria. E non si peritarono di spingere i loro connazionali, prima a “Villa Triste” ed alla “Risiera di San Sabba”, a Trieste, od in tanti altri luoghi di tortura, dove gli aguzzini li sottoponevano alle più atroci sevizie per poi farli sparire nelle Foibe, nelle fosse comuni, od in mare con una pietra al collo, senza dire di coloro che venivano avviati, con estenuanti marce forzate, nei campi di prigionia, o meglio di sterminio, della Jugoslavia, dove morirono lentamente, tra enormi strazi, di fame, di stenti, di freddo e di malattie, ma anche per le più orrende torture che mai mente barbara abbia potuto immaginare (1).

Fino al 1956 ed oltre durò la lenta consunzione di migliaia di italiani in questi strumenti di genocidio, che non erano certo dissimili dai Lager o dai Gulag sovietici.
Corresponsabili di tanto orrore furono parecchi italiani subornati dalla propaganda comunista ed organizzati dal PCI o dalle bande partigiane, impropriamente chiamate “garibaldine”. Né ci si può meravigliare, oggi, di scoprire tante nefandezze in precedenza nascoste, qualora si pensi che uguale crudeltà manifestarono i partigiani comunisti italiani, dopo la resa della Repubblica Sociale Italiana, le cui forze avevano avuto garanzie di civile trattamento dai Comitati di Liberazione Nazionale, spesso disattese.
Infatti, stupri, massacri, torture e barbare uccisioni avvennero anche nelle altre zone   italiane; molti fascisti, o presunti tali, furono seviziati ed eliminati in modo atroce, e persino alcuni sacerdoti vennero evirati e dopo un’orrenda morte “in odium fidei”, esposti al pubblico ludibrio della popolazione comunista.
Nell’Italia “liberata” poteva accadere, ed accadde, che le donne venissero violentate in presenza dei mariti e dei figli, e poi sepolte vive nei pressi di un cimitero; in Jugoslavia, invece, dopo le violenze ed ogni sorta di angherie, venivano gettate nelle Foibe, ignude e sfigurate. Per di più, era frequente la prassi di devastare il volto delle Vittime onde precludere ogni eventuale riconoscimento. Era il terrore: non solo delle uccisioni, ma nello stesso tempo, della scomparsa totale dei Martiri, condannati a restare insepolti, ben oltre ogni forma di “pietas”.
Ne scaturivano, naturalmente, anche l'ansia e la disperazione dei familiari che hanno vagato per anni alla ricerca dei loro cari, trovando sempre un muro invalicabile di omertà, ed un ostinato e sbigottito silenzio, che ancora perdura nei pochi sopravvissuti che sanno e non osano parlare. E si è appreso che, talvolta, i miseri resti delle Vittime sono stati oltraggiosamente lasciati alla mercé di porci affamati!
A Fiume, in Dalmazia, in Istria, gli italiani, perseguitati  e terrorizzati dai partigiani con la stella rossa, furono costretti all'esilio; si calcola che a dover lasciare la propria terra siano stati più di 350 mila. Almeno un quarto dei profughi, assieme a parecchi connazionali delle varie regioni, stante la difficoltà di trovare alloggio e lavoro, non ebbero altra scelta se non quella di emigrare, soprattutto oltremare.
Fu una sorta di terrore istituzionalizzato, imposto dai partigiani titini e dai loro corifei italiani, a conferma di una sola impostazione strategica, riveniente dai vertici  internazionali  dell'organizzazione comunista.
Gli storici ufficiali hanno preferito sorvolare, salvo eccezioni, su queste esplosioni di cieca ed inumana crudeltà, e sul sadismo di tanti torturatori in preda all’ossessione di enfatizzare le sofferenze delle proprie Vittime. E di queste sofferenze non si riesce, quindi, ad avere nemmeno una pur pallida idea.
Si resta increduli e non si può capire come sia stato possibile scendere a tali livelli di inciviltà; o come i membri del CLN, di confessione non marxista, abbiano potuto chiudere un occhio davanti a tanta barbarie, rendendosi conniventi degli assassini e degli eccidi.
Ora, tutto ciò risulta finalmente documentato: è noto, alla luce di testimonianze probanti, come si spargesse il terrore cavando gli occhi, estirpando le unghie, spaccando le ossa, schiantando la spina dorsale, incaprettando la Vittima, evirando, segando le mani con strumenti da falegname, o addirittura squartando.
E’ persino accaduto che, decapitata la Vittima, si tirassero calci al suo cranio come se fosse un pallone. Non mancarono le crocifissioni, senza dire di coloro che vennero sepolti vivi lasciando soltanto la testa fuori dal terreno, perché potessero soffrire più a lungo.  Tutto ciò, per la rivoluzione marxista e per la dittatura del proletariato: un metodo già sperimentato eccellentemente nell’Unione Sovietica e nei Paesi satelliti.

Per dare un'idea esaustiva delle persecuzioni titine in Istria e in Dalmazia c'è perfino la testimonianza del leader comunista di Trieste, Vittorio Vidali, che si vide costretto dalla barbarie dei fatti appurati ad ammettere, in tutta onestà, gli orrori perpetrati contro gli italiani nel lager dell'Isola Calva di cui si disse, non certo a caso: “meglio un mese a Dachau che un giorno a Goli Otok”.
Per dimenticare meglio tutto ciò, la dirigenza comunista italiana ha cercato di impedire in tutti i modi che si parlasse delle vicende giuliano-istriano-dalmate. Allo stesso scopo si rivolge la “vulgata” della “Risiera di San Sabba” a Trieste, che era stata utilizzata dai tedeschi come campo di smistamento degli Ebrei e dei prigionieri politici, ma poi fu usata  anche dagli slavi, che nelle minuscole celle dello stabilimento di pilatura rinchiusero gli italiani da avviare alle Foibe od all'inferno concentrazionario dei loro lager. Fu proprio in quelle celle che si avvicendarono in breve tempo centinaia di candidati alla tortura ed alla morte più spaventosa: una tragica realtà della Risiera, volutamente ignorata.
Delle loro ansie e della loro disperazione avevano lasciato sconvolgenti testimonianze nei graffiti incisi sulle pareti, tanto faziosamente quanto accuratamente cancellati da chi stava “costruendo” un monumento nazionale “a senso unico”: quelle incisioni furono attentamente stuccate ed imbiancate, sulla falsariga di quanto è stato fatto con le pagine della nostra storia. Ed affinché i Presidenti della Repubblica, in visita al Monumento nazionale, non dovessero prendere le distanze da qualcuno dei propri predecessori.
Proseguendo nella rassegna dell’ignoranza, sono pochissimi quanti sanno che il  “Regno del Sud” aveva ospitato partigiani comunisti slavi in Puglia, curandoli nei propri ospedali militari e civili, per poi ricondurli in Dalmazia ad aggredire gli italiani; ed ancora peggio, che fu consentito alle bande di Tito di tenere centri di arruolamento a Napoli ed in altre città del Mezzogiorno occupato dagli Alleati. Vi furono arruolati soldati italiani con la lusinga di un forte premio in “amlire”, e talvolta addirittura con la forza, assimilabile a veri e propri sequestri di persona; altri, che erano comunisti, furono spinti dall'odio contro gli italiani che lottavano ancora per difendere la Patria. Venivano concentrati in un apposito campo nei pressi di Bari da dove, imbarcati su mezzi della Regia Marina (quella che si era arresa a Malta) passavano in Dalmazia: italiani contro italiani per spargere sangue, torture e terrore agli ordini dei compagni slavi.
Continua tuttora quella strategia; e continua l'arroganza dei “baroni” di sinistra, che, facendosi usbergo di una smaccata propaganda, chiamata surrettiziamente “cultura”, pretendono di imporre sempre le loro cosiddette “verità”, minacciando di scomunicare con la qualifica terrorizzante di “fascista” chi osi contraddirli.
In conclusione, giova ribadire che ci fu una vera e propria strategia del terrore, perpetrata dai partigiani titini, come dagli italiani, in esecuzione delle stesse direttive imposte dai vertici dell'organizzazione comunista, con una pervicacia ed un’arroganza “culturale” che continuano ad allignare. In tale ottica, è giusto, anzi doveroso battersi perché la nostrastoria venga “ricordata” con obiettività, lungi da impacci ideologici e da ogni veto paralizzante, senza esclusioni e senza paura.

Rosario Lopa

 

(1) Nel maggio 1945, Maresego divenne campo di sterminio, in particolare dei militi del Reggimento “Istria”. I prigionieri venivano seppelliti vivi fino al collo e abbandonati ad una lenta agonia. Nessun superstite. Ma anche gli altri campi erano atroci strumenti di tortura. Nel novembre 1945 il Presidente del Consiglio dei Ministri Ferruccio Parri si rivolse al Maresciallo Tito per ottenere la liberazione dei prigionieri italiani, accompagnando la richiesta con una precisa documentazione. Mentre la Croce Rossa jugoslava aveva fatto sapere, usando un cinico “escamotage”, che i deportati italiani erano considerati internati politici e quindi non soggetti alla convenzione di Ginevra, Tito rispose arrogantemente che in Jugoslavia si trovavano “soltanto prigionieri di guerra e che i morti non si possono restituire”. Ma dei crimini jugoslavi era spettatore distratto e faziosamente connivente dei governi alleati che avevano vinto la guerra e si ammantavano, pomposamente e paradossalmente, del titolo di “liberatori”.

 

 

Rosario Lopa, già dirigente di “Azione Giovani” a Napoli ed a livello nazionale, svolge attività organizzativa in campo socio-politico, ed è un appassionato cultore di storia contemporanea e di tematiche civili.


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