Vincitori e vinti, il
sangue dei vinti, i figli dei vinti. Guai ai vinti,
solfeggia l’istruito, e ci mette il suggello, la cosi
detta Storia. «Un momento, bisogna distinguere…». Mi
par di riudire Franz Pagliani, il chirurgo, già famoso a
quarant’anni, il solo superstite generale delle Brigate
Nere. I vincitori lo trovavano già davanti al muro del
camposanto in un paese chiamato Concordia: «Subito mi
rubarono gli stivali, il primo supplizio che m’imposero
fu di trascinare i piedi in quella ghiaia tagliente.
Poi, basta, una grossa jeep piena di americani si fermò
lì davanti per caso, cacciarono gli eroi loro sciacalli,
e si presero il generale fascista ora prigioniero”.
Erano loro i vincitori. «Avevo sciolto la Brigata prima
del Po. Feci distribuire le ultime paghe, salutai le
ausiliarie, ammonii tutti: non passate il Po, non andate
in quella Valtellina dove, senza nulla aver predisposto,
vi chiamano gl’incoscienti del Partito per il macello
finale, tutti insieme. Magari con Mussolini…E meno male
che i suoi assassini, fossero questi o gli invitati da
Churchill, lo fucilarono a Dongo. Se andava al processo,
apriva le borse di cuoio, si metteva a leggere… e la
guerra, l’avevano voluta Pagliani, Cacciari, tuo padre…
Lui, non ne sapeva niente».
«Tra i vinti e i
sedicenti vincitori, bisogna distinguere, durerà
cent’anni. Vinti noi fummo perché il fronte tedesco non
tenne. Ma intanto, i banditi, li avevano ridotti al
brigantaggio sugli ultimi monti. Senza lo sfacelo
tedesco, bastavamo noi, con la Gnr e la Decima. Il 1°
novembre 1944, con un forte rastrellamento di 12 giorni,
gli togliemmo Alba, la loro capitale. Ripulimmo la
regione Bra-Alba-Canelli, le mitiche Langhe. Il 12
Novembre, Alexander li mandò a casa, congedo
“ufficiale”, via radio, i lanci aerei costavano troppo e
poco rendevano, se ne riparla a primavera. Se i
vincitori non avessero spazzato via i tedeschi, gli
sciacalli li facevamo a fettine…”. Sciacalli, non
soldati, se togli nuclei spauriti, ormai sottomessi. Non
fu mai una “guerra civile”. Una decina d’anni or sono,
ci fecero un “convegno”, a Rossano Veneto, due passi da
Bassano. Vennero, i comunisti, a strepitare che era
indecente concedere ai fascisti d’aver combattuto una
“guerra civile”. Erano stranieri, peggio dei tedeschi, e
loro servi.
Pochi anni, ed è chiaro l’opposto.
Non fu guerra civile, le guerre civili hanno radici
profonde. I “demoni famigliari” si scatenano dopo
accumuli di secoli e decenni, lo chiarì bene il
generalissimo Franco. Da noi, quei “demoni famigliari”
non c’erano. S’era aperta una voragine di paure e
smarrimenti, i comunisti la riempirono per farsi un
posto nella storia d’Italia, non l’avevano mai avuto.
L’Otto Settembre colsero l’occasione fuggitiva. Con
astuzia e rapidità mafiose. Ricordo come se fosse oggi,
dicevano i vecchi. Io c’ero. Avevo compiuto i 13 anni da
due mesi, ero in calzoni corti, ma c’ero. La sera del 4
Novembre 1943 feci la scorta, per la prima volta, a mio
padre, il latinista del Libro di Didone, delle
Odi di Orazio,
di Persio e Giovenale, nel salone della Casa del Fascio.
Il suo ingresso fece grande effetto alla ribollente
assemblea, due settimane dopo l’avrebbero eletto
“reggente”, non so ancora cosa significasse. Tutti
venivano stravolti, spontaneamente, alla voce subito
corsa da una casa all’altra, che due, tre ore prima,
sull’imbrunire avevano assassinato un ufficiale della
Milizia, il seniore Gernando Barani. Chi è stato?
gridavano. “I badogliani”, era una spiegazione
evanescente.
Grazie Giampaolo Due
o tre mesi bastarono a capire, delitto dopo delitto. Il
mite ufficiale fu simbolo e strumento. La sua morte
doveva provocare arresti di presunti colpevoli, ostaggi
che al prossimo assassinio sarebbero stati, alla loro
volta, uccisi. Vidi e vissi, dai 13 ai 18 anni, imparai
a difendere la pelle. Ecco perché dissi a il Foglio di Giuliano
Ferrara, e ripetei alla sua televisione il 21 aprile
scorso: «Mi considero un supersite, in territorio
nemico». Al turbine d’urli e silenzi, alle mille lagrime
che si levano dalle pagine di Sconosciuto 1945 di
Giampaolo Pansa, rispondo grazie. Sapevo, aspettavo.
Sapevo la catena, inutile e pur inevitabile, delle
rappresaglie. Quando, alla successiva assemblea, dopo un
altro delitto, il Babbo disse che il Duce non voleva
rappresaglie, scoppiò un temporale di proteste: “Venga
lui qua!”. Non si era più fascisti per Mussolini, ma per
se stessi. Che i compagni arrestati dopo Barani
dovessero pagare, due mesi più tardi, per l’assassinio
di Eugenio Facchini, il giovane ufficiale eletto
“federale” del nuovo partito, ammazzato a revolverate
sui gradini d’accesso alla misera mensa universitaria di
Bologna, gli assassini previdero e vollero.
Era
la catena criminale di via Rasella e cento altri
trionfi. Logica perversa, e vincente. Se, poi, dovettero
rassegnarsi alla spartizione di Yalta, che lasciava
l’estinta Italia nel bottino capitalista, i comunisti si
aggiudicarono il monopolio della nuovo mitologia,
resistenza, liberazione, punizione dei vinti. Nessuno
gli rifiutò la complicità che pretesero, uccidendo
militari, cattolici, e quanti gliela negassero. Non
tutti cattolici. A Novara un magistrato accusatore di
nome Scalfaro, che il ministro Piero Pisenti aveva
esentato dal giuramento di fedeltà con tutt’i simili
suoi, chiese e ottenne la testa di Vezzalini, che aveva
riverito quale prefetto pochi mesi prima. A Imola la
feroce, c’era un commissario di P.S., Giovanni Perrino,
che faceva un suo quadruplo giuoco: con la RSI che lo
pagava, con gli industriali che anche lo pagavano, con
le SS che gli davano utili suggerimenti, coi banditi ai
quali organizzerà, alla fine del giuoco, la strage in
piazza. “È un nostro nemico, fa il doppio gioco”, disse
il Babbo. Nella mia logica, semplice ma concreta, gli
chiesi: “Perché non lo fucilate?”, e mi rispose. “Non
abbiamo prove, e poi il Duce vuole la legalità, a tutti
i costi”. Mandai il signor Duce a farsi fottere, per una
nuova volta.
Fu il commissario Perrino che
accusò il Babbo di aver scelto, per la rappresaglia
Facchini, gli arrestati dopo il delitto Barani. Risultò
poi, in sede di “revisione del processo”, la mia prima
revisione, che a designarli era stata una riunione di
magistrati militari, a Bologna, presieduta da Alessandro
Pavolini, venuto apposta. Negli atti del processo del
Babbo trovai, dieci e più anni dopo, gli appunti che
vedove comuniste avevano scritto sotto dettatura:
“Ritengo colpevole della fucilazione Buscaroli Corso”.
Sul rovescio, anzi sul diritto del foglio, c’era
l’intestazione “Comune di Imola”. Li avevano fabbricati
nelle sedi “istituzionali” conquistate. Nel 1960 la
Corte di Cassazione annullò “senza rinvio” l’immondo
processo e le sue condanne, compresa la confisca dei
beni che ci era stata inflitta ed eseguita: senza poter
restituire la vita al Babbo che intanto era morto due
mesi dopo essere uscito dal carcere.
Vincitori?
Sciacalli Ecco perché dico “Io c’ero”. Tutto
mi divenne chiaro, giorno dopo giorno, e tutto si legò,
più tardi, alla lettura. Non è vero. Non è vero che i
vinti non abbiano scritto. La sola storiografia che
valga qualcosa, in quei primi anni, dal Due anni di storia di
Attilio Tamaro, a Una
repubblica necessaria di Piero Pisenti, alla
poderosa opera dell’intera vita di Giorgio Pisanò, è
tutta dei vinti. Quelli che si proclamarono vincitori, e
soltanto n’erano gli sciacalli, scrissero menzogne,
vanterie, insulti, ciarpame. Ma leggere la stampa dei
vinti era pericoloso e anche inutile, perché erano i
vinti, il suo prestigio riconosciuto sol dalle vittime e
congiunti. Il popolo bue non capì mai niente, non volle
sapere niente.
Oh, se c’ero. Per un curioso
azzardo che mi ha fortemente colpito, e non posso
attribuire se non al caso (e non a chi gli ha narrato i
fatti della città infame, ch’è persona serissima, mi
conosce e me ne avrebbe avvertito, prima di porre, tra
quei fatti, i miei personali), due volte, senza saperlo,
Pansa, che mi ha mandato il suo libro “con stima”, mi
costringe a venire all’aperto, come persona. Alle pp.
245 e seguenti, narra “la strage di Imola”, come è
narrata nella lettera «di un testimone oculare che in
quei tempi aveva 17 anni, molto preciso e convincente,
Sergio Raffuzzi»: questi «rivela che non si trattò di un
linciaggio» improvvisato, «bensì di un’esecuzione decisa
per ordine dei comandi partigiani… nel chiuso della
caserma dei carabinieri» (organizzata, aggiungo io, dal
quadrigiochista commissario Perrino, che doveva coprire
qualcosa). Alle vittime, in piazza, schiacciarono crani
e toraci, fecero uscire gli occhi a colpi di manubri di
ferro da ginnastica. «Quattro erano tra i 15 e i 17
anni». Raffuzzi non ha scritto come fui salvato io,
perché m’è amico e sapeva che non desideravo esibirmi
quale mancato martire neppure quindicenne. Quella
domenica mattina, 25 Maggio 1945, benché mia madre, che
temeva, mi tenesse, più che poteva, in casa, ero anch’io
alla “messa dei belli” delle 11,30 nella Chiesa del Pio
Suffragio. La messa era alla fine quando udimmo, anche
Raffuzzi, che ancora non conoscevo, rumor di tumulto e
urla strazianti. Noi, ch’eravamo accanto all’ingresso
della chiesa affollata, scendemmo i tre gradini sulla
piazza e restammo allibiti all’orribile sanguinoso
groviglio che arrossava gli antichi ciottoli venti metri
più in là.
Ora che scrivo, dopo 60 anni e 5 mesi
precisi, faccio fatica a riassumere. Al mio apparire, si
alzò un urlo, in quel bastardo dialetto, “E adesso, dopo
i grandi, cominciamo coi piccoli!”, e fui afferrato da
un figuro che di vista conoscevo, e si chiamava
Tarabusi, detto Buchi. Impotente a resistere e a
difendermi, mi trascinarono, sotto i primi colpi; mi
meraviglia sempre, al ricordo, la chiarezza con cui
sentivo che bisognava morire, quando il frastuono, che
mi parve immenso, di un potente motore, sparpagliò il
gruppo. Mi sentii afferrato da molte braccia, e issato
su un gippone dell’Ottava Armata inglese, che partì come
un bolide. Erano un ufficiale e due sottufficiali
polacchi della divisione di Anders che aveva occupato la
città. La sua unità medica s’era acquartierata nei
grandi scantinati della nostra villa di via Petrarca 6.
In quel mese, da che c’erano piombati in casa, mia
madre, una Falorsi fiorentina, aveva fatto conoscenza e
poi amicizia con la comandante medica, maggiore, una
delle nobildonne fuggite a Londra ch’erano accorse e si
fecero ausiliarie dei compatrioti quando i russi
“regalarono” agli alleati inglesi i prigionieri presi
dopo il 1939.
Si rivelò una contessa Paskowski,
prima cugina di Stanislao, gran signore fiorentino e
proprietario della famosa birreria Paskowski, davanti
alle Giubbe Rosse: aveva sposato Viola la figlia di
Giovanni Papini, ed era stato testimone di nozze di mia
mamma nel 1929. Dopo che la mamma le ebbe confidato, fin
dai primi giorni, la sua angoscia, il marito scomparso,
il figlio minacciato, la nobile signora aveva ordinato,
o pregato, alcuni dei suoi militari di tenermi d’occhio
e seguirmi quando uscissi. Odiavano i tedeschi, i russi
e i comunisti dovunque ne trovassero, nulla avevano
contro di noi. Si divertivano a buttar giù le bandiere
rosse appese agli alberi e mi protessero senza che io me
ne accorgessi. Dopo otto mesi passati accanto al fronte,
tutti i servizi pubblici erano morti, il telefono
taceva. Ma la Contessa riuscì, coi mezzi militari, a
parlare con Roma, e nella sera arrivò con la vecchia
Augusta, per la via del Furlo lo zio Mario de Bernardi,
il grande aviatore che aveva sposato la sorella della
mia mamma. Passammo la notte in un albergo di Nocera
Umbra, e il giorno dopo ero salvo a Roma. La fortuna,
che gli dèi buoni mi conservavano, fece morire Buchi
dopo alcuni mesi. Ormai all’ultimo stadio di
un’infezione repellente che il popolaccio chiamava
“scolo nero”, andò a spiaccicarsi contro un muro
pilotando una motocicletta rubata. N’ebbi una sensazione
trionfale.
Johann
Sebastian Bach, ovvio Quella fortuna, e quegli
dèi, non erano dissolti tre anni più tardi. «A Imola»,
scrive Raffuzzi a Pansa, «l’ultimo assassino politico
del dopoguerra avvenne il 15 Luglio 1948, il giorno
successivo all’attentato a Togliatti. Fu l’omicidio di
Giuseppe Cavulli, di 25 anni, di professione sarto. Era
un giovane simpatizzante della Democrazia Cristiana, a
conoscenza di fatti, ma soprattutto misfatti, che andava
raccontando, con una certa dose di coraggio», leggo in
Pansa, p. 253. «Quel giorno, forse in previsione della
rivoluzione rossa, due individui si presentarono alla
casa di Cavulli… Dopo alcune concitate parole, uno dei
due lo uccise a colpi di rivoltella… I presunti
assassini se la cavarono con un’insufficienza di
prove…».
Torno a uscire all’aperto. Quel giorno
ero, dalla prima mattina, al Liceo Rambaldi dove, tra
baraonde e scioperi, ancor si protraevano gli esami di
maturità. Avevo appena sostenuto la prova di filosofia
con un professor Giovanni Pezzoli di Bologna, gran
signore appassionato di musica, quando entrarono le
squadracce, ci buttarono fuori, tra urli e spintoni,
imponendo lo sciopero rituale. Ci ritrovammo, a mezza
mattina, in via Garibaldi, tra la scuola e il Seminario
diocesano. «E adesso, cosa facciamo?», domando Pezzoli.
Risposi che si poteva andare in Duomo, 200 metri di lì,
e suonare Bach all’organo.
Lasciato il
pianoforte, m’ero messo, dapprima come “uditore” e poi
allievo alla scuola di Ireneo Fuser, il grande organista
morto di 101 anni, l’anno scorso. Siccome non avevo
altri, i canonici del Duomo mi avevano concesso un
incarico, non pagato e confidenziale, d’organista.
Dov’era stato, mezzo secolo avanti, Lorenzo Perosi. La
“confidenza” era tale che, nonostante la contrarietà di
un monsignor Cappelli, mi portavo in tasca le chiavi
dello strumento, il maggiore della città, alto e
torreggiante, dipinto d’un bianco e celeste molto
barocco, in mezzo alla vastissima tribuna cui si
giungeva per una chiocciola interminabile. Suonai a
Pezzoli come potevo e sapevo, e non vorrei risentirmi
oggi, la Passacaglia in do
minore e, Pezzoli, mi retribuì generosamente ai voti:
più dei suoni, credo, che delle mie conoscenze di
filosofia, materia che ho sempre capito poco. Prima
che da Cavulli, che conoscevo appena come il solo
monarchico della città, i “presunti assassini” erano
andati a casa mia, dove la mamma mi accolse, madida di
pianto, dopo avermi fatto cercare, a scuola e in giro,
da alcune amiche. Il “territorio nemico” (macché
patria, la patria è morta) era nemico davvero. In
diverse guise, per me sempre rimase.
Non riesco a
scegliere C’ero, ci sono ancora, leggo: «La
targhetta di metallo che veniva legata al petto degli
uccisi, Giampaolo Pansa l’ha messa sulla copertina del
libro, e ne costituisce il titolo: Sconosciuto 1945
(Sperling & Kupfer, pp. 476, €18). “Me l’ha data la
figlia di un ucciso”. Dopo il successo del libro
precedente Il sangue
dei vinti (400mila copie vendute e molti strilli
da parte delle vestali della Resistenza) Pansa è tornato
a frugare nella tragedia negata dell’Italia
sconfitta…».
Io non riesco a scegliere, lì
dentro, c’ero troppo in mezzo. Trascrivo da il Giornale del 7
ottobre, dov’è apparso il più limpido e fermo degli
scritti fin ora pubblicati sul nuovo libro. N’è autrice
Domizia Carafoli, scrittrice che incide, figlia di un
gentiluomo scrittore: «Se ne Il sangue dei vinti
rievocava le oltre 20.000 vittime della sanguinosa
vendetta consumata dopo la fine della guerra», in questo
ultimo suo libro «Pansa fa parlare altre vittime, ancora
più innocenti, i figli degli uccisi». Dice l’autore che
«questo libro è figlio di qualcosa d’inaspettato che
accade pochi giorni dopo l’uscita del Il sangue dei
vinti e mi ha letteralmente travolto. Centinaia di
lettere, di e-mail, di fax; erano i figli, i nipoti
delle vittime, che volevano raccontare altre storie
ancora ignorate, rivelare com’erano morti il padre, la
madre, i nonni, la zia. Voci che volevano dire
dell’altro, voci che uscivano da un silenzio imposto per
60 anni… Ho rifletto circa un anno e poi ho incominciato
a radunare le storie, ho incontrato queste persone, ne
ho raccolto le confidenze, spesso le lagrime di uno
strazio ancora vivissimo…».
Questa gente, la sua
compostezza, il suo pianto ignorato e vietato, hanno
suscitato nell’onesto scrittore ammirazione, devozione,
pensieri, mutamenti. «Bella gente» l’ha chiamata,
gente limpida, per bene. «Erano persone che per la prima
volta raccontavano fuori della cerchia familiare. Ma
spesso anche in famiglia si era taciuto». Tra gli esempi
di raccapriccio, rammenta una signora, oggi
professoressa di matematica, cui il nonno, presso il
quale si era rifugiata con la mamma dopo l’uccisione del
padre, impose loro di non parlarne mai più. «La bambina
diceva che il padre era caduto in guerra», e quando, nel
1954, «si decise a scrivere la verità in un tema, il
professore le consigliò di continuare a dire che era
morto in Africa».
Cari amici, è l’Italia. Da
quando ebbi un barlume di ragione, smisi di amarla coi
suoi orribili italiani. Mi chiamo Italico, come ai tempi
di Roma. Con quest’animo contemplo da decenni «un dolore
consumato in assoluta solitudine, intorno a loro un
paese monolitico celebrava la Guerra di Liberazione». E
non se ne cambi una virgola, sbiascica e s’imbizzisce il
Ciampi. E invece tutto cambia, si muove una frana che
non s’arresterà per decenni, non ci saranno abbracci, né
quei Monopoli per deficienti che sono le “memorie
condivise”. Se non i morti, si levano l’odio e sazietà
delle memorie vietate e sepolte. Il lurido castello, o
Ciampi, o Fini, va in pezzi.
La sera di mercoledì
19 ottobre, in un ricevimento di giuristi ed economisti,
un signore triste, un quindici anni in meno di me, mi
disse: «Sono suo lettore dai tempi del Borghese». Venne al
mondo, nel Modenese, molti mesi dopo che suo padre,
neppur fascista, era stato prelevato di casa e
scomparve, ai primi di Maggio del 1945. Raccontò di
un’infanzia mesta, sotto una cappa di silenzio. Ancora
una volta entravo, da vivo, in un cimitero di
sentimenti, la seconda stanza della ferocia comunista.
Pansa la separa nettamente dalla prima. Qui non sono
“vinti” perché non combatterono, non ebbero
nemici. Al macello dei fascisti doveva seguire il
secondo, dei cattolici, dei possidenti, dei benestanti.
Questa stanza fu sempre tenacemente confusa con la
precedente, quasi una coda scapricciata, di certo
esagerata, ma dopo tanti affanni, pur comprensibile.
Quando il vigliaccume giornalistico doveva trattarne,
faceva titoli con «le schegge impazzite dopo la
Liberazione» (Resto del
Carlino, 4 gennaio 2004).
Giampaolo Pansa,
cui né Scalfaro né Ciampi, né Fini né D’Alema potran
chiudere la bocca perché non è fascista, allarga, scava,
distingue, accusa. Il secondo macello doveva ripulire
l’Italia per farla comunista. Aveva cominciato Pisanò,
nel 1992, con un libro monumentale, Il triangolo della
morte, che resta, ancora una volta, la base
fondamentale. Ma Pisanò era fascista, si poteva
ignorarlo come non esistesse. Ora, chi potrà schiacciare
le dita a Pansa per impedirgli di girare la chiave?
Vedrete, vedrete, è appena cominciata.
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