da: IL SECOLO D’ITALIA – mercoledì 7 maggio 2003
Le interviste di Federico Guiglia

A colloquio con Honoré Pitamitz, dirigente dell’”Associazione Dalmati Italiani nel mondo”

Massacri ed esodo: per troppo tempo hanno rappresentato una storia dimenticata.

La chiesa di San Donato e Sant'Anastasia a ZaraGli italiani erano diciannovemila su ventiduemila abitanti della città. Allora, tra l’altro, la minoranza non era di slavi, ma di albanesi. Le foibe furono il momento più drammatico della persecuzione. I massacri erano finalizzati a terrorizzare la nostra gente e spingerla ad abbandonare la propria terra.

Sono decenni che si batte per la stessa causa. Eppure Honoré Pitamitz, ani settantanove e già funzionario della Banca d’Italia, sente il bisogno di premettere: “Non so se riuscirò a spiegarmi, l’abbiamo talmente nel cuore questa cosa…”. Questa cosa ha un nome: esodo. Che ha la stessa radice di esilio. Trecentocinquantamila italiani hanno conosciuto l’uno e l’altro, più di mezzo secolo fa, quando furono costretti ad abbandonare le loro terre in Istria, Fiume e Dalmazia. E arriva la seconda premessa: “Io non ho mai fatto politica, proprio per evitare divisioni fra gli esuli. Ognuno ha la sua idea, non è vero che la pensiamo tutti allo stesso modo. Ma tutti siamo esuli”. Lui è stato presidente per tredici anni del comitato di Varese dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, città che proprio ieri ha promosso il convegno “La foibe, una storia dimenticata”. Da quel tema e da quel convegno Honoré Pitamitz, che da diciott’anni è pure e soprattutto assessore dell’”Associazione Nazionale Dalmati Italiani nel Mondo – Libero Comune di Zara in esilio”, prende spunto per lanciare due proposte fortemente volute dalla “sua” gente: l’istituzione “formale e definitiva” della giornata nazionale della memoria e della testimonianza; e la richiesta che durante la presidenza italiana del semestre europeo, “venga posta la questione dei beni abbandonati in Slovenia e Croazia”. Poi arriva la terza e ultima premessa: “È un po’ strano che una persona col mio nome, Honoré, parli dell’Istria e della Dalmazia. Ma mio padre emigrò in Francia da Zara nel 1922. E io rappresento la quarta generazione. Sono nato ad Antibes, sulla Costa Azzurra. Andai a Zara a quattro anni per poi tornare a studiare in Francia. Ma ritornai nella città dei miei nel ’34. Restandoci fino al ’43.

- Che ricordo ha conservato di quel periodo?
Bellissimo. Zara era un’enclave che rispondeva, in realtà, a tutte le necessità: scuole, teatro, sport, comunicazione, non mancava proprio niente. Ero alunno delle medie. E subito, nei primi giorni di frequenza, mi colpirono i ragazzi, che erano svelti e svegli. E sì che provenivo da una realtà come Antibes, al cui confronto Zara avrebbe dovuto sfigurare. Invece…

- Da un po’ di tempo si vuole sapere della vostra storia, la “storia dimenticata”. Quale capitolo bisogna riservare alle foibe?
Rappresentano il sunto più drammatico della persecuzione subita dagli italiani in Istria e all’interno della Dalmazia. I quali in tanta parte di quei territori costituivano la maggioranza della popolazione. Le foibe e lo spettro delle foibe sono servite, affinché la maggioranza italiana dell’Istria e di Zara abbandonasse la propria terra.

- Perché anche Zara?
Soprattutto Zara, perché era una spina nel fianco, isolata, in tutta la Dalmazia. Rappresentava un’enclave, una roccaforte che all’indomani della prima guerra mondiale era stata assegnata all’Italia proprio per la sua accertata italianità.

- Accertata quanto?
Gli italiani erano diciannovemila sui ventiduemila abitanti della città. Allora, tra l’altro, la minoranza non era di slavi, ma di albanesi. Una popolazione che era lì presente da quasi trecento anni, perseguitata per ragioni religiose già all’epoca della guerra dei turchi e dell’impero ottomano.

- Quanti furono gli italiani a lasciare definitivamente Zara?
Più di diciottomila. La città subì cinquantaquattro bombardamenti aerei anglo-americani durante il secondo conflitto mondiale. Noi siamo convinti – e ci sono pure delle prove al riguardo – che anche in quelle azioni ci fosse la volontà di spingerci ad andare via ad ogni costo.

- L’”effetto foiba” non ha comportato solo lutti e orrore – lei dice – ma anche una spinta collettiva a fuggire. “Spettro” in questo senso?
Intanto il concetto di foiba dovrebbe essere esteso. Ci furono anche le fucilazioni, le detenzioni nei campi di concentramento. le torture, gli annegamenti. Marito e moglie di una delle più importanti famiglie zararine – quella del famoso maraschino Luxardo – furono annegati nel canale di Zara, per esempio. La persecuzione anti-italiana fu una scelta politica. Gli slavi titini s’erano assunti il precipuo compito di impaurire la popolazione dell’Istria con gli eccidi. Eccidi che cominciarono già dopo l’8 settembre e non soltanto alla fine della guerra nel ’45.

- Che cosa resta di italiano nella Zara di oggi?
La città è cambiata profondamente. Gi abitanti sono più di settantamila con immigrazioni di parecchie etnie, specialmente dopo la guerra fratricida del ’91. L’identità italiana oggi come oggi consiste nella capacità che abbiamo avuto, nonostante tutto, di istituire un’associazione della comunità italiana di Zara. È il punto di riferimento per alcune centinaia di persone. Un atto di testimonianza, molto piccolo ma molto importante. Certo, è più facile essere presenti in Istria, dove esistono un obbligo di tutela giuridica e una rappresentanza politica, e i nostri connazionali sono assai più numerosi.

- Lo scorso 16 febbraio s’è celebrata la “giornata nazionale della memoria e della testimonianza”. Considerate giusto o ancora insufficiente quel riconoscimento?
Giusto ma insufficiente. Siamo stati noi a promuovere quella giornata, alla quale, è vero, sono intervenute autorità come il governo. Ma il coinvolgimento istituzionale dev’essere il più ampio possibile a tutti i livelli, e non dev’essere occasionale. Noi non sottovalutiamo quello che si è fatto, chiediamo però che dopo questa “prima volta”, il Parlamento sancisca con un atto formale l’anniversario del ricordo. Insomma, vogliamo che si dica con tutti i crismi dell’ufficialità: l’esodo fa parte della storia nazionale. Non è, non è stato un fatto di cronaca di guerra.

- L’esodo è di mezzo secolo fa: perché è ancora una ferita aperta?
Il riconoscimento morale, che è mancato in tutti questi anni, deve essere definitivo proprio per lenire il nostro dolore. Si parla di trecento, trecentocinquantamila persone costrette a lasciare la loro terra per conservare la propria identità, e spesso anche la vita. Persone che si sono rifatte un’esistenza in Italia e in tante parti del mondo, ma che sono rimaste dolorosamente legate a quella drammatica esperienza. Ci siamo divisi in tante associazioni di provenienza, ma tutte fanno capo a un’unica federazione nazionale. L’unità nella diversità. Istriani, fiumani e liberi Comuni di Zara, Pola e Fiume in esilio.

- Qual è la funzione dei liberi Comuni in esilio?
Tener uniti i cittadini delle città ex capoluoghi di provincia e tramandare la loro storia. Non solo quella degli ultimi decenni, perché si parla di realtà antiche e pienamente inserite nel proprio tempo. I Comuni in esilio organizzano ogni anno incontri per tenere vivo il ricordo dell’esodo, per dare un futuro alla memoria. Per questo si deve comprendere il significato morale e materiale che varebbe per noi tutti la giornata “istituzionale del 10 febbraio. In coincidenza con l’anniversario del trattato di pace, che ha sanzionato, nel ’47, la perdita delle nostre terre.

- Da alcuni anni s’intitolano strade e piazze ai “martiri delle foibe”. Non è un segnale che qualcosa è davvero cambiato nella ricerca di una “memoria condivisa”?
Abbiamo fatto dei grossi passi in avanti negli ultimi tre, quattro anni. Forse perché s’è visto che cosa è successo nell’ex Jugoslavia. Forse perché “noi associazioni” non abbiamo mai mollato la presa. E forse perché c’è una maggiore consapevolezza rispetto al passato.

- Rispetto al passato c’è o non c’è un miglioramento di clima nei rapporti con Croazia e Slovenia?
Parlerei di un piccolissimo miglioramento. Ma quando si toccano determinati temi, ci sono ancora molto nazionalismo e antagonismo da quelle parti. L’importante è saperlo, o meglio, non dimenticarlo quando si fanno trattative. L’importante è che le nostre autorità diplomatiche siano presenti e partecipi dell’opera di diffusione della cultura italiana. Noi ci basiamo molto su questo, sulla cultura come mezzo per farci conoscere e per dialogare: edizioni di libri, concerti, conferenze, mostre storiche e così via.

- Poi ci sono i vostri “testimonial”: Missoni, Luxardo, no?...
Nomi internazionali, non c’è dubbio, che aiutano a far capire il senso e la portata della nostra causa.

- Ma gli esuli all’estero quanti sono e in che modo coltivano la loro identità “strappata”?
Abbiamo associazioni in più di trenta Paesi, dal Canada all’Australia, all’Argentina. Anche loro pubblicano, organizzano raduni e partecipano ai nostri raduni. La cosa curiosa è che la distanza non ha affievolito l’amor di patria. Da questo punto di vista l’elemento che ci unisce è il nostro dramma. Siamo accomunati dall’esodo al di là di ogni confine.

- Fra meno di due mesi l’Italia presiederà il semestre europeo. Che sbocco può avere la vostra questione nell’Unione?
Uno, importantissimo: che la Croazia, in predicato per entrare nell’Unione – e neppure tra i primi Paesi -, e la Slovenia, si attengono rigorosamente alle norme europee per la libera disponibilità di acquisto di case sul proprio territorio. Di fatto loro negano a noi la possibilità di riacquisire o acquisire beni.

- Ma sulla base delle vostre ricerche c’è una disponibilità all’acquisto da parte dei nostri connazionali?
Certo che sì. Bisogna tener presente che Trieste è al confine e settantamila esuli lì sono finiti. Capisco che le nostre esigenze possano essere percepite in modo non coinvolgente per chi risiede lontano o persino a Roma. Ma ci sono moltissimi italiani che vivono a cavallo fra Trieste e la loro vecchia dimora. Se potessero riacquistarla, loro o i loro figli, lo farebbero di corsa. Ma non possono. E non possono in un’Europa che ha abbattuto tutte le barriere. Fra l’altro, l’opportunità di acquisire beni, aiuterebbe a mantenere una tradizione italiana a cavallo del confine. Cultura e presenza, ecco che cosa significa, al di là del legittimo sentimento dei singoli, poter avere il diritto a riavere le nostre case e le nostre cose.

f.guiglia@tiscalinet.it