L'otto settembre 1943 ero in Piemonte , sergente allievo
ufficiale in forza presso l'82° compagnia di cannoni antiaerei a
protezione della Diga di Moncenisio. Dovemmo constatare che tutti i
reparti del nostro esercito con cui cercammo di collegarci si era dissolti
in mancanza di direttive dei Comandi Superiori. Anche il nostro reparto
subì la stessa sorte. Ognuno cercava di tornare al suo paese. Inoltre
c'era il pericolo di venire catturati dai Tedeschi, inferociti per il
tradimento.
Attraverso mille peripezie, arrivai a
Torino e mi infilai su un treno affollatissimo diretto al Sud. A Genova ci
colse un bombardamento devastante e altrettanto successe a Livorno.
Continuai a piedi, con le scarpe sfondate, ebbi poi un passaggio su un
camion e arrivai a Roma.
Quando lessi il manifesto di Graziani
con l'invito a partecipare alla manifestazione al teatro Adriano alle
15,30 di venerdì 1° ottobre per la costituzione del nuovo esercito della
RSI mi sentii rianimare. Vi andai ben volentieri. Il teatro era affollato
di ufficiali giovani e meno giovani accomunati in un entusiasmo
insospettabile dopo lo sfacelo del Regio Esercito, avvenuto in un sol
giorno l'otto settembre.
Aderii anch'io alla RSI e mi sentii
sgravato da un peso che mi aveva quasi soffocato.
Mi fu affidato un plotone di
universitari, tutti volontari, da addestrare. Esperienza bellissima, tanto
entusiasmo ed una nuova atmosfera : un fervore costruttivo dopo il caos.
Roma, città aperta, era diventata una
grande centrale di spionaggio e controspionaggio, un immenso formicaio in
cui però mi sentivo solo, e fui ben lieto di rincontrare il mio amico
Giuseppe Marvaso di Napoli. Poi facemmo amicizia con un giovane barese,
paracadutista della "Nembo" : Franco Nuovo.
La sera eravamo liberi ed andavamo a
dormire in una pensione a Via Merulana.
Al piano di sotto abitava una bella
donna : Emi, che attirò la nostra attenzione. Emi era frequentata anche
da ufficiali tedeschi. La sera spesso andavamo a giocare a carte da Emi in
una atmosfera di cordiale cameratismo con i camerati germanici.
Eravamo nel gennaio 1944; uno di
questi ufficiali ci propose di collaborare nei Servizi Segreti
italo-tedeschi.
Accettammo tutti e tre. Frequentando
un rapido corso di addestramento e specializzazione apprendemmo i
rudimenti del mestiere, che aggiungemmo alla nostra pregressa esperienza
militare.
Conoscemmo il nostro capo : il
capitano Lang, che ci affidò subito una prima missione. Io e Franco fummo
destinati a lavorare assieme, mentre Giuseppe ebbe assegnato un altro
compito in una zona diversa. ( Giuseppe Marvaso, in coppia con Ducci, passò
poi le linee ad Alfedena il 3 febbraio '44 ma dopo qualche giorno fu
catturato el il 24 febbraio fu rinchiuso a Poggioreale, il carcere di
Napoli, nel padiglione Italia cella 52)
La prima missione in Abruzzo, riguardò
la raccolta di notizie relative ad una certa attività clandestina in
combutta con prigionieri anglo-americani evasi l'otto settembre. Le nostre
informazioni diedero un risultato positivo con la cattura di numerosi
ribelli.
Per la seconda missione fummo inviati
oltre le linee.
Dovevamo fornire ai comandi notizie
sulla quantità e qualità degli apprestamenti nemici, sul tipo di truppe,
sul tipo e sul numero di cannoni e carri armati ed ogni altra notizia
utile a contenere gli attacchi degli " Alleati". Per la
trasmissione avremmo fatto capo ad altri agenti in possesso di radio
trasmittenti. Per le nostre spese ci fu data una cospicua somma in AM-lire
sequestrate ai prigionieri di guerra.
Il capitano Lang ci accompagnò
personalmente sul caposaldo di prima linea scelto per l'attraversamento e
fummo ricevuti dall'ufficiale di artiglieria comandante.
Era sistemato in una caverna tutta
foderata di teli bianchi, in modo molto confortevole; ci offrì un liquore
mentre ascoltavamo da un fonografo una musica di Massenet. Fu una
piacevole parentesi ed un esempio di perfetta organizzazione tedesca.
Andammo a riposare fino all'ora adatta per tentare l'attraversamento. Più
a valle c'era una sentinella, mimetizzata in bianco in mezzo alla neve.
Quando smontò al termine del suo turno ci accorgemmo che era giovanissimo
ed in preda ad un feroce mal di denti, ma aveva resistito senza chiede il
cambio.
Era già buio ma l'oscurità era rotta
dalle vampe dei cannoneggiamenti. Dopo un po' avemmo via libera e
cominciammo a scendere a valle, attraversando la terra di nessuno. C'era
molta elettricità nell'aria. Il duello di artiglierie in corso accendeva
di vampe il cielo e il terreno intorno a noi e ci costringeva a fermarci
carponi balzando in avanti soltanto negli intervalli di buio.
Ad un tratto inciampai in un fil di
ferro in mezzo alla neve. Pensai subito ad un grappolo di mine antiuomo
collegate tra loro. Me ne liberai con la massima cautela accorgendomi poi
che per fortuna era il tirante di un filare di viti.
Giunti più a valle sentimmo
avvicinarsi una pattuglia e ci acquattammo nella neve coprendocene il più
possibile. Restammo immobili nel gelo finche non udimmo più alcun rumore.
Appena albeggiò esplorammo la zona cercando di rilevare tutto quello che
poteva essere interessante, ma mentre attraversavamo una strada fummo
intercettati da una camionetta inglese.
-Alt ! . dove andare ? -Ad Atina -
rispondemmo. Avevamo studiato precedentemente la zona ed avevamo pronte le
risposte insieme ad una lacrimevole storia di profughi che, sfuggiti ai
rastrellamenti tedeschi, cercavano di raggiungere le loro case al sud.
- Atina ! portare noi. - E fummo
costretti a montare sulla camionetta.
Arrivati ad Atina, in piazza alcuni
facinorosi, vistici in mezzo agli inglesi, ci sputarono addosso.
Il sergente inglese ci portò senza
tanti complimenti direttamente al carcere mandamentale dove subimmo un
pesante interrogatorio cui tenemmo testa con la storia che ci eravamo
preparata e stando bene attenti a non cadere in contraddizione.
Finsero di credere a quanto dicevamo e
ci unirono ad un gruppo di profughi con destinazione Bari. Ci avrebbero
sicuramente sottoposti ad altri interrogatori nei campi di smistamento
dove vagliavano la massa dei profughi al fine di non farsi sfuggire
qualche agente speciale.
Portati sotto scorta alla stazione
fummo caricati in un carro merci e chiusi dentro, allo stesso modo in cui
facevano i tedeschi con gli uomini che rastrellavano per inviare in campo
di concentramento.
Faceva un freddo insopportabile e,
spinti dalla disperazione, cominciammo a strappare qualche tavoletta
sconnessa dal rivestimento interno del carro. Qualcuno aveva della carta e
dei fiammiferi. In breve fu acceso un fuocherello al centro del pianale .
Riuscimmo a riposare un po' al calore del fuoco.
All'alba però il pavimento del carro
merci, consunto dal fuoco, cedette e si aprì un grosso buco. Appena il
treno si fermò pensammo subito di evadere : ci lasciammo cadere dal buco
sui binari bruciacchiandoci un po', e ci sdraiammo rasente ai binari per
evitare di essere colpiti dal grosso gancio che pende al centro del vagone
di coda. Un avvertimento che ci avevano dato al corso e che ci salvò. Il
treno ripartì sulle nostre teste lasciandoci illesi . Nessuno si accorse
di noi e fummo liberi e ci avviammo verso Bari che non era lontana.
Prima di arrivare alla casa di Franco,
un suo conoscente lo informò della requisizione dell'abitazione da parte
degli inglesi che avevano ammucchiato tutte le suppellettili esistenti in
due stanze preferendo arredare il resto secondo le loro esigenze.
Così decidemmo di riposare di giorno
e di andare via prima pell'arrivo degli inglesi. Ma mentre eravamo
sdraiati in mezzo alle masserizie sentimmo entrare e parlare in inglese.
Dal buco della serratura vedemmo un ufficiale ed una ausiliaria cominciare
le loro effusioni. Così fummo sicuri di poter riposare tranquilli.
Dopo un pezzo che la coppia inglese se
ne fu andata ce ne uscimmo anche noi. Prendemmo degli oggetti di Franco
che potevano essergli utili e ci rifornimmo di sigarette inglesi e di
frutta fresca che erano su un mobile
Mentre camminavamo per strada a Bari
vedemmo riflesso in una vetrina il sergente inglese che ci avava
interrogato ad Atina . Ci stava seguendo. Franco mi disse di stare
tranquillo, continuammo a camminare con lo stesso passo e poco dopo ci
infilammo in un portone. Il sergente si fermò fuori ad aspettarci ...e
noi uscimmo dalla parte posteriore e sbucando nella via parallela lo
seminammo. Solo allora affrettammo il passo. Incontrammo un mio compagno
del corso allievo ufficiali del 42-43 e passammo la notte in caserma
ospiti del collega badogliano che ci rifocillò.
Il mattino seguente ottenuto un
passaggio su un camion dell'aviazione badogliana raggiungemmo Torre del
Greco. Avevamo in mente di incontrarci a Napoli con Giuseppe Marvaso per
rientrare in Repubblica Sociale con lui che conosceva un varco per il
ritorno dopo una sua missione nel porto di Napoli che noi sapevamo che
stava effettuando.
Così ne approfittai per riabbracciare
i miei. Ma durò poco. A mezzanotte irruppero dentro casa i francesi del
Deuxième Bureau in pieno assetto di guerra, guidati da un tal tenente
Durland che brandiva una foto di Emi, la donna che avevamo frequentato a
Roma. Voleva sapere come la conoscevamo e faceva tante altre domande.
Ovviamente le nostre risposte negative non servirono a dissuaderli. Tra
l'immaginabile sgomento dei miei fummo entrambi arrestati e tradotti sotto
buona scorta a Napoli.
Ci portarono al 3° piano di un
palazzo di Via dei Mille, l'ultimo portone prima delle rampe. I francesi
ci interrogarono a lungo e per convincerci facevano un giochetto crudele :
ci mettevano tre matite tra le nocche delle dita della mano aperta messa
di taglio sul tavolo e davano all'improvviso un fortissimo colpo sulle
falangi. Ancor oggi non riesco ad articolare bene le dita.
Volevano fare di noi degli agenti
"doppi". ci dicevano continuamente : -Tu devi lavorare per noi-
Ma i Tedeschi ci avevano già messo in
guardia su questa eventualità . Loro se ne sarebbero subito accorti. Ma
non c'era bisogno di minacce. Né io né Franco avremmo mai accettato di
lavorare per il nemico.
Alla fine i francesi capirono che era
inutile insistere e ci portarono a Poggioreale, il carcere di Napoli, al
padiglione I , Italia.
Una notte ci fu un furioso
bombardamento tedesco sul porto e le bombe scoppiarono vicinissime al
carcere.
Tra tante urla sentii una voce nota ,
era la voce di Peppe Marvaso.
Cantando a squarciagola riuscii a
farmi riconoscere da lui e sempre cantando gli esposi le mie vicende.
Dopo una quindicina di giorni vennero
a prenderci gli scozzesi. Una squadra comandata addirittura da un
capitano. Eravamo importanti !. All'ufficio matricola del carcere ci restituirono
i valori che avevamo depositato. Il capitano scozzese appena vide la mia
catenina d'oro (otto grammi!) disse disinvoltamente: -Questa prendere io-,
e me la rubò spudoratamente davanti a tanti testimoni. Tra i suoi
antenati avrà avuto Brenno.
Ci portarono a Via Tasso, sempre
a Napoli. Nella stanzetta in cui eravamo chiusi ci acquattammo sotto il
pagliericcio per bisbigliarci qualche accordo per i prossimi
interrogatori. Temevamo di essere ascoltati con microfoni nascosti.
Subimmo interrogatori durissimi. Da lì
siamo stati portati anche a Villa De Falco, sulle falde del Vesuvio. Gli
inglesi usavano dei metodi psicologicamente raffinati. Ci davano le
sigarette ma non i fiammiferi. Ci separavano, poi ci rimettevano insieme,
poi prendevano uno di noi dicendo di salutarci per l'ultima volta. Quando
uno era fatto uscire, l'altro sentiva poco dopo una raffica di mitra. Il
camerata non veniva più messo nella stessa cella, ma ripetevano la scena
con un altro.
Alla fine io e Franco fummo riportati
a Poggioreale e dopo pochi giorni fummo trasferiti al campo di
concentramento di Carinola , vicino Caserta ,che fungeva da campo di
smistamento.
All’interno del campo erano
sistemate delle baracche, mentre raggiungevamo quella a cui eravamo
destinati, incontrammo dei marò della Decima MAS, li abbracciammo.
Dopo qualche giorno fummo trasferiti
in camion al campo di Padula. Ad Ercolano fu consentita una sosta in
campagna per dare sfogo ai propri bisogni. C'era per terra tantissima
cenere lanciata dal Vesuvio durante gli undici giorni della sua ultima
eruzione iniziata il 19 marzo del '44, avevo notato un civile che guardava
noi, poveri prigionieri tra le sentinelle. Scrissi per terra nella cenere
un messaggio per la mia famiglia e l'indirizzo e gli feci cenno da
lontano. Quando tornai a casa, due anni dopo, ho saputo che il messaggio
era stato recapitato.Quando arrivammo a Padula ci accorgemmo che i reclusi
erano sottoposti alla fame più nera.
Il generale Marotta il veterano del
campo, ci disse che i primi giorni gli inglesi non si erano vergognati di
nutrire i prigionieri con ghiande . Proprio così : ghiande. Ci adattammo
a mangiare di tutto. Anche le olive acerbe di alcuni alberi di olivo
abbattuti per stendere i reticolati. Ricordo che erano amarissime.
Dormivamo per terra in cento per ogni
camerone della famosa certosa.
Passai a Padula 15 mesi assieme a
Franco Nuovo e Peppe Mavaso.
Tra i duemila di Padula durante i mio
soggiorno ebbi l'onore di conoscere persone che avevano ricoperto cariche
importanti come il generale Bellomo, poi fucilato a Nisida, il principe
Valerio Pignatelli, il duca Andrea Carafa d'Andria, Achille Lauro, Il
figlio di Nazario Sauro, i fratelli Garibaldi,Ricciotti e Giuseppe, il
capitano pilota Riccardo Monaco, Nando Di Nardo.
Ma c'erano anche tantissimi altri
fascisti meno noti ma tutti animati da un solo ideale : la Patria,
l’Onore, il Fascismo.
C'era anche qualcuno che non c'entrava
per niente ed era lì per errore o per qualche vendetta privata.
Su Padula è stato scritto molto e non
è il caso di dilungarmi. Voglio solo aggiungere che talvolta per fregare
le guardie indiane infilavamo dei capelli nello loro schifose sigarette
"victory". Le guardie si sentivamo male e qualcuno nel trambusto
era riuscito addirittura a passare nel reparto femminile. Le sentinelle
indiane che avevano accettato le sigarette "truccate" venivano
anche picchiate dagli inglesi.
Il 25 maggio '45 il campo di Padula fu
chiuso. Fummo trasferiti a Terni , nei locali della fabbrica di gomma
sintetica (R.Internee Camp di Collescipoli).
Tentiamo una fuga. Franco Nuovo e
Mario Wurtzburgher (rugbista napoletano) riuscirono ad evadere. Io fui
preso. Facemmo anche un pesante affronto al sergente Lanan che si era reso
inviso a tutti per le sue soperchierie. Gli sfilammo la pistola e lo
spingemmo fuori dal nostro edificio tra insulti e sberleffi. Poi lanciammo
la pistola al di là dei reticolati.
Vennero a Collescipoli anche degli
Ufficiali della Regia Marina che volevano interrogarci. Li prendemmo a
sassate.
A Pasqua del '46 molti di noi furono
liberati, non io che mi ero macchiato di "gravi" crimini di lesa
maestà nei riguardi dei nostri aguzzini.
Nel maggio '46 gli ultimi "recalcitrans"
, alla chiusura del campo di Terni furono trasferiti al campo di
Riccione-Rimini , ultimo rimasto aperto in Italia.
Era stato un campo di aviazione. Prima
di noi c'erano state le SS tedesche. Ci lasciarono in eredità delle tende
ben piantate e ben allineate. C'era anche una chiesetta e proprio lì
sotto avevamo cominciato a scavere un tunnel per evadere.
Nel reparto femminile c'era pure una
tedesca, moglie del primo ministro irakeno, con cui tra mille difficoltà
intrecciai una relazione.
Il campo era vicino al mare e ogni
tanto i nostri guardiani ci portavano sulla spiaggia. Durante la marcia i
comunisti locali ci provocarono e nonostante la presenza delle sentinelle
armate che accorsero a dividerci le presero di santa ragione.
Circolando nel campo, notai in una
tenda il capitano Lang, sì proprio quello a capo della rete di agenti
segreti a cui apprtenevo. Fingemmo di non conoscerci. Sapevamo bene che in
tutti i campi e in tutte le carceri ci sono spie infiltrate.
A Riccione vennero anche ufficiali
dell'esercito badogliano per interrogarci. Per sgomberare il campo da ogni
equivoco quando entravamo nella baracca dove si svolgevano i colloqui
battevamo i tacchi e facevamo il saluto romano.
Ci avevano messo a lavorare vecchie
divise di soldati inglesi. Sottraemmo a poco a poco gradi , buffetteria e
alcuni capi. Così potemmo approntare le divise di un ufficiale e quattro
soldati e cinque camerati riuscirono ad uscire dal cancello principale
perfettamente inquadrati salutati dalle sentinelle polacche.
Finalmente la mia odissea ebbe fine .
Fui liberato l'11 novembre 1946 per segnalazione di Enrico de Nicola,
allora Capo dello Stato, che era vicino di casa della mia famiglia a Torre
del Greco.
Ritornato libero per molti anni ho
avuto incubi notturni: Appena mi addormentavo credevo di essere nuovamente
in prigione. Solo da qualche anno ne sono guarito.
Peccato che i nostri sacrifici non
siano serviti ad avere una Italia migliore, ma sono ancora fiero di quello
che ho fatto.