IL RITORNO DELLA MEMORIA.
UNA MESSA A PUNTO METODOLOGICA E DI STORIA DELLA STORIOGRAFIA SUL
DISSENSO CLANDESTINO NEL MERIDIONE (1943-1945)
Intervento
di Stefano Arcella
Stefano Arcella - Funzionario
Amministrativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali presso la
Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III" di Napoli,
collabora -in qualità di ricercatore- con la Fondazione Evola di Roma per
la quale ha curato la pubblicazione delle lettere di Julius Evola a
Benedetto Croce che ha consultato presso l'Archivio Croce. Editorialista
della pagina "Kultura" del quotidiano IL TEMPO - Edizione di
Napoli (1994-'96), pubblicista, ha collaborato con le riviste Italia
Settimanale (Roma), Futuro Presente (Perugia). Vie della Tradizione
(Palermo), Il Cerchio (Napoli ), Hyria (Nola), L'Alfiere (Napoli) e col
mensile Il Monitore (Napoli). Ha collaborato con la cattedra di Diritto
Romano dell'Università "Federico II" di Napoli. E' autore di
numerose pubblicazioni.
1.1 Quando ho letto il
libro di Francesco Fatica Mezzogiorno e Fascismo clandestino (1943-1945) e
ho, poi, avuto modo di conversare con l'Autore, mi sono reso conto del
rilievo che contributi come questo hanno ai fini di una corretta revisione
della ricostruzione storiografica sulla storia del Meridione fra il 1943 e
il 1945 nel quadro più complessivo della storia nazionale di quegli anni.
Si tratta di una letteratura
memorialistica che, nel rilevare aspetti inediti o, quantomeno, poco noti
di quel periodo storico, può essere inquadrata in quel complesso e
variegato fenomeno culturale che si qualifica come " revisionismo
storiografico " accezione di cui va recuperato il significato
positivo in termini di rilettura, correzione, revisione -sulla base di un
approccio rigoroso alle fonti storiche- delle vicende che hanno segnato un
popolo e, più propriamente, il mondo intero, in un determinato momento
storico, tragico e cruciale per le sorti politiche, culturali ed
economiche sia dell'Italia che dell'Europa.
Certo, la memorialistica non è, di
per sé, sufficiente per impostare una ricostruzione della storia di
quegli anni su basi veramente scientifiche, ossia rigorosamente
documentate, senza subire condizionamenti ed apriorismi ideologici. Essa
va integrata con altre fonti in un quadro complessivo ove -e questo è il
compito dello storico- lo sforzo di analisi critica sappia coordinare i
dati in una visione d'insieme che riveda, ove ciò sia necessario, i
luoghi comuni delle versioni oleografiche che hanno connotato la
storiografia ufficiale dal dopoguerra ad oggi e abbandoni le tendenze
apologetiche, di qualunque segno ideologico, per attenersi alla verità
dei fatti, in piena autonomia scientifica dalle interferenze proprie a
interessi politici ben determinati e che storicamente sono stati
soprattutto quelli propri al potere politico dominante. Questa
letteratura, dunque, pur non esaurendo il compito né il contenuto della
ricerca storica, è funzionale ad un processo di revisionismo
storiografico, soprattutto quando trattasi di testimonianze che emergono
dopo 50 anni di silenzio dovuto al particolare clima di intimidazione e di
conformismo antifascista che ha segnato un lunghissimo dopoguerra nella
seconda metà di questo secolo.
Una funzione, dunque, quella della
letteratura memorialistica, sussidiaria rispetto alla ricerca storica
" pura" ma preziosa, poiché consente al ricercatore l'accesso
ad una molteplicità di informazioni, di notizie, di dati che lo aiutano a
calarsi nella particolare temperie culturale, nella specifica atmosfera
psicologica di quel momento storico, poiché nella ricostruzione dei fatti
sussiste sempre il rischio di cadere nell'astrazione, ossia di perdere di
vista l'elemento vivo della storia, che è l'uomo coi suoi stati d'animo,
la sua psicologia, l'educazione ricevuta in un determinato periodo e in un
dato contesto ambientale, le sue spinte ideali unitamente ai suoi concreti
interessi legati all'appartenenza ad un determinato ceto sociale. Orbene,
questo fenomeno "revisionista" al quale contribuiscono vari
filoni, dalla memorialistica alla ricerca archivistica, alla letteratura,
va, però, compreso nelle sue motivazioni di fondo, quale segno del
mutamento dei tempi, di un graduale e faticoso rinnovamento culturale in
cui ad una visione faziosa, parziale degli eventi, frutto di rancori e di
risentimenti propri a chi è stato coinvolto in vicende recenti o
relativamente tali, subentra lentamente un approccio più distaccato e
sereno, più pacato e riflessivo, lontano dalle foghe apologetiche di ogni
segno ideologico.
1.2 Fino a pochi anni orsono la storia
del XX secolo e soprattutto quella fra le guerre mondiali nonché
dell'ultimo conflitto bellico è stata narrata secondo le convenienze
politiche dei gruppi di potere dominanti, legati allo schieramento
politico-militare uscito vincente dal II conflitto mondiale. Ma per
narrare la storia -quella vera, basata sull'approccio documentato, sullo
spoglio delle fonti storiche- e, soprattutto, acquisire una coscienza
storica più matura, devono trascorrere almeno 40-50 anni dagli eventi
oggetto di ricerca e di approfondimento. Solo uno sguardo distaccato,
lontano dalle passioni suscitate da quei fatti, può infatti, essere
capace di ricostruire, con lucidità, il complesso intreccio delle forze e
delle motivazioni che hanno generato quelle vicende. Ciò è tanto più
vero ove si consideri che gli effetti politici del II conflitto mondiale
(il patto di Yalta, la guerra fredda, il Muro di Berlino), sono durati
fino a pochi anni orsono, determinando un clima politico-culturale del
tutto sfavorevole ad una ricerca storiografica veramente libera.
Il revisionismo nasce quindi da
una necessità storica e culturale, quella di rivedere, con autentica
autonomia scientifica lo svolgersi degli eventi, poiché col trascorrere
degli anni, era sempre più avvertito negli ambienti scientifici, il
disagio di uno studio storico subalterno alle " verità"
preconfezionate dal potere politico e soprattutto dai grandi apparati
culturali (Università statali, case editrici, RAI-TV ) dominati o
largamente condizionati dall'egemonia culturale che il P.C.I., attuando la
strategia gramsciana della conquista culturale della società civile, era
riuscito a realizzare nel corso di alcuni decenni.
E questo disagio riguardava, comunque,
non solo l'Italia ma l' Europa e particolarmente la Germania dove il
" senso di colpa " legato al fenomeno storico del
nazionalsocialismo e dei suoi crimini aveva determinato una rimozione dei
misfatti commessi da altre nazioni e nel nome di altre ideologie e,
dunque, il rifiuto di una considerazione complessiva dei genocidi e delle
violazioni dei diritti umani che hanno segnato questo secolo.
La tesi di Ernst Nolte sul
comune carattere totalitario del nazionalsocialismo e del comunismo
sovietico e quelle di Renzo De Felice volte al riconoscimento di una base
di largo consenso del fascismo-regime negli anni '30 e della crisi
dell'identità nazionale aperta delle vicende dell'8 settembre '43, hanno
squarciato la cappa di conformismo che da decenni bloccava l'evoluzione
della ricerca storica in Europa. E le polemiche suscitate da queste nuove
tesi storiografiche testimoniano della subalternità della cultura "
ufficiale" rispetto alle oligarchie politiche dominanti. Poi, i
mutamenti geopolitici intervenuti sullo scenario mondiale ( dissoluzione
dell'URSS, caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo, crollo del muro
di Berlino, riunificazione della Germania ) hanno radicalmente innovato il
clima storico-culturale, con forti ripercussioni anche in Italia e con la
possibilità di ripensare più liberamente la storia europea e italiana di
questo secolo.
Il libro di De Felice "Rosso e
nero" -con la rilettura delle tristi vicende dell'8 settembre e la
denunzia coraggiosa della crisi dell'identità nazionale apertasi in quel
tragico momento- nonché il recente contributo di Sergio Romano sulla
guerra di Spagna, sono segni eloquenti dello sviluppo di questa tendenza
storiografica che non accetta più di vedere il bene e il male rigidamente
divisi, l'uno incarnato tutto da uno schieramento politico-militare e
l'altro rappresentato esclusivamente da quello opposto, ma tenta di
cogliere la complessità della storia, coi suoi intrecci diplomatici, le
sue contraddizioni politiche, i retroscena economici, ma anche i risvolti
psicologici, gli stati d'animo, le pulsioni ideali, i crimini e le stragi
di tutte le parti in causa del II conflitto mondiale.
Si delinea, dunque, un nuovo clima
culturale, di maggiore autonomia dello studio storico dalle egemonie
politiche e culturali consolidate. Ma le cose stanno veramente in questo
modo? O non vi sono ancora resistenze, ostracismi, rimozioni che
intralciano l'evoluzione della ricerca? Questi interrogativi conducono
subito al problema dell'accesso alle fonti storiche e informative.
2 - In un convegno
svoltosi a Roma, presso la Biblioteca Nazionale Centrale, nel gennaio
1997, promosso dall'Associazione Culturale Heliopolis, sul problema
dell'accesso alle fonti storiche e informative, vennero denunciati, da
parte dei relatori, gli ostruzionismi che -sia nell'ambito degli archivi
statali, sia in quelli privati ed anche nell'ambito delle fonti
informative- si frappongono tuttora al progresso della ricerca storica in
Italia.
Chi scrive ebbe modo in quel convegno
di narrare la storia e le difficoltà del percorso di ricerca che aveva
condotto alla consultazione delle lettere di Julius Evola a Benedetto
Croce. Era stato necessaria una interrogazione parlamentare sulle
resistenze che, inizialmente (la vicenda andò avanti per circa un anno)
l'Archivio Croce aveva frapposto alla pubblicazione di quelle lettere (poi
pubblicate col suo consenso), come esempio emblematico delle difficoltà
della ricerca storica in Italia.
Emersero poi altri esempi
significativi, come quello concernente le difficoltà di accesso alle
fonti informative sulle vittime civili dell'attentato di Via Rasella. (E
il problema non si limitava alla storia del XX secolo, ma investiva ben
altri campi specialistici, come l'archeologia, per la quale il prof. Finzi
ebbe a sottolineare il monopolio delle fonti archeologiche che, talvolta,
si verifica in certe cerchie specialistiche). Analoghe problematiche
vennero affrontate, sempre nel gennaio '97, nel corso di un convegno
svoltosi a Napoli sul tema "Revisionismo storiografico e pluralismo
culturale", promosso dall'Associazione Culturale Flumen.
Recentemente, sul Secolo d'Italia del
9/10/98, Luciano Garibaldi ha riportato la testimonianza di una
Funzionario, Archivista di Stato, la dottoressa Carucci, la quale
denunciava il peggioramento delle condizioni della ricerca storica in
Italia, dal momento che l'accesso alle fonti archivistiche riservate
-ossia una particolare categoria delle fonti archivistiche- è stato, con
una recente disposizione, subordinato all'autorizzazione del Ministero
degli Interni, ossia un organo politico che sostituisce la competenza
precedente della Giunta Archivistica che era un organo tecnico composto da
storici e da archivisti. Come se ciò non bastasse, è stato anche
soppresso il parere, in materia, del Direttore dell'Archivio Centrale
dello Stato.
Per cogliere la gravità di queste
recenti innovazioni normative si consideri che tuttora le lettere di
Claretta Petacci a Mussolini sono coperte dal segreto di Stato poiché,
secondo la motivazione ufficiale del provvedimento di segretazione
"la signora aveva l'abitudine di occuparsi di affari di Stato".
Pertanto, agli studiosi e al pubblico è preclusa tuttora la possibilità
di conoscere il contenuto di quell'epistolario.
Siamo, dunque, in presenza di una
problema che è, sì, culturale ma è soprattutto politico, poiché è
evidente che un organo squisitamente politico decide di autorizzare o meno
l'accesso alle fonti riservate sulla base di criteri politici, cioè della
convenienza politica del momento.
Viene in tal modo gravemente limitata
la libertà di ricerca e lo sviluppo degli studi, poiché al potere
politico sarà facile far conoscere solo quei documenti "
riservati" che è interessato a divulgare, condizionando in partenza
la direzione e l'orientamento della ricerca. Il potere politico reagisce,
in questo modo, allo sviluppo del revisionismo storiografico, quasi in una
sorta di riflesso condizionato, di istinto di conservazione di un
equilibrio culturale da difendere a costo di occultare la verità storica,
deformare i fatti, disperdere le tracce documentali scomode.
Ma è lecito chiedersi: i problemi
della ricerca storica e del ritardo, della lentezza del suo sviluppo sono
esclusivamente questi o ve ne sono altri, interni agli stessi autori delle
fonti e in particolar modo agli autori della letteratura memorialistica?
Occorre quindi, per dare una risposta a tale domanda, operare una
ricognizione delle fonti sul dissenso clandestino nel quadro più generale
della storiografia sul fascismo.
3.1. Chi esamini la
letteratura memorialistica sul dissenso clandestino fascista nel
Mezzogiorno (1943-1945) e, in particolare, su quello napoletano, noterà
agevolmente due caratteristiche: la prima è la lentezza con la quale
queste testimonianze-preziose per la ricostruzione storica- sono emerse,
sintomo eloquente del clima politico e culturale che ha segnato l'Italia
nel lunghissimo dopoguerra dal '45 ad oggi, un clima di paura -per chi
aveva combattuto nello schieramento perdente- e quindi di riluttanza a
narrare vicende di cui era stato direttamente partecipe o, ancor più,
protagonista. Una riluttanza comprensibile perché -a voler parlare
chiaro- la II guerra mondiale, considerata sotto il profilo dei suoi
effetti politici e militari, ha avuto una durata lunghissima, per circa 45
anni. Si dovranno attendere gli eventi del 1989-1992, per vedere la crisi
dell'ordine di Yalta, accentuata poi dalla unificazione tedesca e dalla
crisi balcanica.
L'Italia -che durante la "guerra
fredda" era sulla "linea del fuoco" fra i due blocchi- ha
risentito fortemente di questa situazione storica. La stessa Costituzione
della Repubblica è la risultante della mediazione fra i due filoni
politico-culturali che avevano i loro referenti in diversi stati
stranieri: l'URSS da una parte, il Vaticano e gli USA dall'altra.
L'antifascismo, con tutta la sua
carica di enfasi, è stato la mitologia e il cemento ideologico della
Repubblica, una sorta di " dogma " che condizionava ab origine
la cultura nazionale e la stessa produzione storiografica.
Chi scrive ricorda molto bene lo
scandalo e il clamore che accompagnarono, all'inizio, gli studi
"eterodossi" di De Felice il quale osava dire che il regime
fascista, per un certo arco temporale, aveva aggregato intorno a sé un
consenso di massa, argomento, peraltro, non nuovo, già sostenuto dal
neofascismo post-bellico, ma che lo storico sosteneva con ben diverso
spessore scientifico e con uno sguardo ben lontano dalle passioni
ideologiche.
E' in questo clima che si spiega la
riluttanza di molti testimoni a raccontare vicende vissute in prima
persona con una precisa e clandestina scelta di campo.
C'è poi una seconda peculiarità che
riguarda i contenuti stessi di questa memorialistica. Dalla lettura dei
racconti si evince una gran dovizia di notizie sui profili psicologici e
morali dei vari protagonisti, sugli stati d'animo, sul momento del
coraggio individuale -poiché il fascismo clandestino al Sud fu
soprattutto un movimento di forti individualità- sulle difficoltà e le
persecuzioni subite dal movimento. Quello che non appare con chiarezza è
la portata e la consistenza dell'attività di sabotaggio delle retrovie
angloamericane compiute dai vari gruppi clandestini. Si prenda, ad
esempio, la figura del Marchese Marino de Lieto, di cui ci parla
l'architetto Antonio De Pascale nella sua memoria. Essa è emblematica
della connotazione etica ed estetica del fascismo clandestino nel
Mezzogiorno, come movimento di forti individualità che hanno assimilato
ed interiorizzato la lezione di d'Annunzio sul rapporto tra estetica e
politica e che hanno quindi il culto del "bel gesto",
dell'azione individuale nel segno dell'eroismo, del sacrificio; un'azione
è "bella"-in quella prospettiva ideologica- perché in essa si
esprime e si esalta il valore dell'individuo che si distingue dalla folla.
Marino de Lieto è un
personaggio particolare: ufficiale superiore della Marina Militare, con
all'attivo alte onorificenze al valore, guadagnate sempre in battaglia
durante la I guerra mondiale in cui si era distinto per "azioni
spettacolari".
Quest'uomo, dopo l'arrivo a Napoli
degli angloamericani, inizia una guerra " privata", misteriosa,
di cui teneva all'oscuro persino gli amici del movimento clandestino. Si
allontanava per intere settimane, senza che nessuno sapesse dove andava e
a fare cosa.
Solo di qualche iniziativa del de
Lieto è testimone il de Pascale, ma, per il resto, tutto è, ancora oggi,
avvolto nel mistero.
Se si legge con attenzione la memoria
di De Pascale, si scorge non solo per il marchese de Lieto, ma anche per
tutto il movimento, nel suo complesso, questa " zona d'ombra",
concernente la concreta attività di probabile sabotaggio delle retrovie
del " nemico".
Mancanza di dati, di notizie da
riferire o riluttanza a dire tutto?
Non è un problema da poco, perché la
ricostruzione storiografica ha, in questa letteratura memorialistica, una
delle sue fonti più preziose, anche se da vagliare con rigore critico.
La mia personale convinzione -maturata
attraverso la lettura di questo tipo di fonti- è che ancora molto ci sia
da raccontare al fine di un esauriente inquadramento storico del
contributo militare del fascismo clandestino nel Mezzogiorno.
Ed anche quando si aprono squarci di
verità, essi danno luogo a nuovi interrogativi.
Risulta, ad esempio, dalla memoria di
Antonio de Pascale, che gli agenti segreti della RSI venivano paracadutati
sui Monti Lattari o nell'area di Licola ma poco o nulla è detto sugli
sviluppi di queste operazioni militari (e sulla loro maggiore o minore
incisività) che rispondevano, evidentemente, a dei progetti, con
obiettivi ben precisi.
Altro esempio è il racconto del
convegno segreto di Montecolino nel libro " Decima Flottiglia
nostra..." di Sergio Nesi, ove la dovizia di particolari sui
contenuti dell'incontro fra Alleati, Tedeschi ed esponenti militari della
RSI non è affiancata da altrettanta dovizia sulle fonti di cognizione
atte a documentare la veridicità dell'incontro medesimo. Su questo
aspetto, l' Autore rimane nel vago " In quella stanza a Montecolino
-egli scrive- la discussione dovette essere certamente animata, ma nulla
è trapelato oltre le battute iniziali surriferite filtrate attraverso una
porta socchiusa, se non il parere assolutamente negativo che di quel piano
diedero i plenipotenziari americani ".
"Filtrate attraverso una porta
socchiusa": una affermazione vaga, forse volutamente imprecisa per
far luce su una vicenda importante sia per la storia della RSI, sia anche
per inquadrare meglio il contesto politico, diplomatico e internazionale
in cui collocare il ruolo e le possibilità del fascismo clandestino al
Sud.
E c'è anche tutto un altro aspetto,
non secondario, da approfondire: il fascismo clandestino ha come suoi
esponenti i fascisti eterodossi che durante il Ventennio erano stati
espulsi o comunque allontanati dal PNF. Sono loro, nel Sud -e non gli ex
gerarchi- ad assumersi, in un momento storico difficilissimo, l'onere e i
rischi -che vedevano come un "onore"- di guidare il fascismo
clandestino: un segno eloquente di discontinuità politica fra il regime
fascista e il movimento clandestino '43-'45, a dimostrazione di come
questo nuovo fenomeno fosse l' incipit del neofascismo. Il movimento
fascista, liberatosi dalla incrostazioni delle mediazioni che lo avevano
connotato nel Ventennio, ritornava alle origini ma le sviluppava in modo
nuovo, originale, con una accentuazione del momento sociale ( nella RSI),
e di quello "etico" ed "estetico".
3.2. Quanto alle fonti archivistiche
esse sono consistenti: rapporti dei CC.RR., dei prefetti e dei Questori,
notizie acquisite e trasmesse dai servizi di informazione del Regno del
Sud.
Tutta la letteratura storiografica in
materia è ampiamente fondata su questa tipologia di fonti. Basta
consultare, ad esempio, i contributi di Giuseppe Conti, per verificare
come le note in calce siano piene di riferimenti ai documenti
dell'Archivio Centrale dello Stato.
Occorrerebbe, però, una consultazione
capillare dei documenti di quel periodo conservati negli Archivi di Stato
dei capoluoghi di provincia dell'Italia Meridionale, per verificare se
fossero pervenute ai Prefetti notizie riservate sui vari movimenti e
gruppi clandestini del Meridione e, in caso affermativo, in che misura e
con quali contenuti. Sarebbe interessante, infatti, avere un quadro più
esauriente e dettagliato di questi fermenti politici che connotarono
l'Italia Meridionale di quegli anni, anche e soprattutto sotto il profilo
militare, dell'attività dei sabotaggi messi in atto contro le retrovie
alleate.
A tale riguardo, una ricognizione dei
documenti dell'Archivio di Stato di Caserta -zona probabilmente
interessata da atti di sabotaggio- e dell'Archivio di Stato di Napoli
-città in cui era, a quanto risulta, il "vertice" del movimento
fascista clandestino al Sud, come anche degli Archivi di Stato di altre
città meridionali (Cosenza, in particolare, per i documenti del MIF già
esaminati in sede accademica ma che meriterebbero una ulteriore
ricognizione)- potrebbe risultare molto proficua, anche in caso di una
esiguità delle fonti, perché, comunque, contribuirebbe ad avere una
visione più chiara della reale entità di questo fenomeno politico. Se
sarà il caso, eventualmente, di ridefinirne e ridimensionarne la portata,
ebbene lo si faccia, ma è tempo, ormai, di recuperare la verità su
questo aspetto poco noto della storia del Mezzogiorno.
E se, invece, dovessero risultare
risvolti sorprendentemente rilevanti di questo dissenso politico, sarà il
caso di acquisirli alla memoria storica nazionale.
3.3 La letteratura, in materia, è
ancora esigua: alcune memorie anche di tenore autobiografico, alcuni
contributi specialistici molto documentati, ma siamo ancora lontani da una
rigorosa, esauriente, ricostruzione globale del dissenso fascista
clandestino che sciolga alcuni quesiti centrali, quali il rapporto coi
progetti politici della R S I (non è ancora del tutto conosciuto, ad
esempio, il contenuto del famoso colloquio fra Mussolini e la principessa
Pignatelli a Gargnano nell'aprile del '44 ), il legame fra certi fenomeni
di rivolta -quali la Repubblica di Comiso- e i progetti di Pavolini che
propugnava la tesi della militarizzazione del partito fascista
repubblicano con la formazione di un esercito fortemente ideologizzato
(vedi creazione delle Brigate Nere) in luogo dell'esercito nazionale, di
impostazione " patriottica ".
Ed ancora: il grado di collegamento e
di unità operativa, di raccordo strategico e tattico fra i vari gruppi
fascisti clandestini operanti nel Meridione, il loro rapporto col
cosiddetto movimento dei " non si parte", come è stato definito
dalla letteratura storiografica in materia; sono tutti interrogativi
irrisolti che, in quanto tali, dovrebbero stimolare la ricerca.
La situazione degli studi storici, in
materia, è comunque in evoluzione. Il fiorire delle pubblicazioni, sia
nuove che riedizioni di testi da lungo tempo irreperibili, l'affiorare
delle testimonianze, gli interventi della stampa con nuovi servizi
giornalistici e lo stesso convegno di Napoli promosso dall' I.S.S.E.S. con
la partecipazione di studiosi qualificati, sono tutti segni di un rilancio
di questi studi e, soprattutto, di un fermento culturale, di una nuova
esigenza di riappropriarsi della memoria storica nazionale, ricomponendola
nei suoi elementi costitutivi, fra i quali anche il fascismo clandestino
del Sud Italia ha un suo ruolo ed un suo preciso rilievo storico.
Ma non sarà forse proprio questo
-nell'odierno panorama culturale- l'aspetto scomodo e non "
politicamente corretto"?
Non sarà, in altri termini, il
recupero alla storia di questo fenomeno taciuto dalla storiografia e da
tutta la cultura ufficiale post-bellica a costituire un elemento
dirompente di consolidati equilibri culturali e politici ?
Su quali miti, su quali premesse si è
fondata la cultura ufficiale in Italia negli ultimi 50 anni ?
Questi interrogativi ci conducono
direttamente ad un nodo cruciale per l'identità culturale italiana.
4. Tutta la cultura
italiana ufficiale post-bellica si è fondata sul "mito" della
resistenza, della lotta partigiana antifascista ed antinazista, quale
fonte della legittimazione ideologica del nuovo ordinamento istituzionale
e politico. Ma questo equilibrio culturale, rimuovendo la memoria storica
dell'altro schieramento italiano, quello dei vinti, di coloro che avevano
combattuto nella RSI e nelle fila del fascismo clandestino meridionale, ha
determinato una lacerazione del tessuto dell'identità nazionale, acuita
dal disconoscimento della genuinità delle motivazioni ideali e
patriottiche che spinsero molti italiani ad aderire alla RSI o a militare
nei gruppi fascisti clandestini del Sud.
Accanto al "mito" della
resistenza, era fiorito, nel '43-'45, un altro "mito", quello
del tradimento da parte del Re e di Badoglio, che era anche il mito
dell'onore nazionale infranto sia per l'arresto di Mussolini, sia per
l'armistizio dell'8 settembre -con tutto il corollario della fuga del Re e
dei generali che abbandonarono Roma- sia ancora per la dichiarazione di
guerra alla Germania da parte dell'Italia nell'ottobre del 1943.
Chi si schierò a fianco dei Tedeschi
era convinto di salvaguardare l'onore nazionale, la fedeltà alla parola
data, propugnando quindi un'etica dell'onore, della fedeltà e della
responsabilità che aveva come suo intento fondamentale quello della
salvezza della Patria, la cui causa era identificata con quella del
fascismo alleato con la Germania.
Questa ideologia patriottica e questa
posizione etica ebbero precise conseguenze sulla connotazione stessa del
fascismo clandestino nel Meridione, che si distinse per il rifiuto
sistematico a compiere attentati contro il nemico nei centri urbani, per
evitare rappresaglie sulla popolazione civile, con una linea di
comportamento ben diversa da quella che caratterizzò alcune formazioni
partigiane in varie città d'Italia. Il famoso attentato di Via Rasella a
Roma -in cui persero la vita anche civili italiani- è molto significativo
a riguardo.
Esempi salienti di questo orientamento
del fascismo clandestino meridionale volto ad evitare la guerra civile al
Sud, sono la rinuncia a compiere qualunque attentato a Togliatti -di cui
si conosceva la residenza, in Via Brogia a Napoli,- e l'abbandono del
progetto mirante al rapimento di Benedetto Croce in penisola sorrentina.
Le direttive di Mussolini al riguardo
e la convinta obbedienza ad esse dei gruppi fascisti clandestini del Sud,
sono molto eloquenti di questo orientamento "patriottico"
eticamente nobile, ma oggettivamente limitativo delle possibilità di
azione e di manovra di tutto il movimento fascista clandestino del Sud
Italia. E le prove di queste vicende sono ormai acquisite e consolidate
nella letteratura memorialistica, dal libro di Francesco Fatica, al
memoriale di Antonio de Pascale che nell'ultima intervista rilasciata a
Francesco Fatica, ribadisce queste linee essenziali del movimento.
Orbene, fino a quando la storiografia
ufficiale accademica non riconoscerà l'importanza storica del mito del
tradimento e dell'etica dell'onore quali chiavi di lettura del fascismo
repubblicano -ufficiale al Nord, clandestino al Sud- e non recupererà
alla storia la memoria di questo fenomeno clandestino meridionale coi suoi
connotati "patriottici ", "etici " ed
"estetici" ( pongo questi termini fra virgolette poiché essi,
nella prospettiva del fascismo clandestino di quegli anni, assumono una
particolare valenza ), non potrà esservi ricomposizione della memoria
storica nazionale né una effettiva pacificazione nazionale. E, in
mancanza di tutto ciò, non vi saranno le basi per una autentica
rifondazione dell'identità nazionale, intesa come consapevolezza che
ricomprenda sia il mito della resistenza che quello del tradimento, ossia
la autenticità, lo schietto convincimento degli Italiani di entrambi gli
schieramenti.
La verità è che il "mito"
del tradimento si è tramandato nel corso delle generazioni andando a
fondare, in termini culturali, un'altra Italia, un'Italia marginalizzata,
rimossa, disconosciuta ma pur sempre reale, pur sempre vitale e che, in
quanto tale, ha titolo, storicamente ed eticamente, ad essere parte
integrante dell'identità nazionale.
Una Nazione non può occultare o
pretendere di distruggere una parte delle sue radici e delle sue memorie:
un popolo che sia davvero maturo e che voglia proiettarsi verso l'avvenire
fa i conti col proprio passato, conserva la sua memoria e nella
ricomposizione dell'identità nazionale supera le antiche lacerazioni. E
questo "mito" del tradimento, nonché l'etica
"patriottica" che segnò il fascismo clandestino del Meridione
hanno anche una funzione fondante la nuova identità meridionale nel
quadro più ampio di quella nazionale, perché consentono di superare una
visione di comodo del Meridione -consolidatasi dall'unità nazionale in
poi- come una realtà segnata dal sentimento della sconfitta di fronte
all'invasione dello straniero; il Meridione, quindi, come emblema della
passività, della rinuncia, della rassegnazione.
Recuperare alla storia la
memoria e la connotazione "etica" del fascismo meridionale
clandestino negli anni della occupazione angloamericana, significa dare un
prezioso contributo per far maturare la consapevolezza di tutta una antica
tradizione meridionale di vitalità, di coraggio, ma anche di indipendenza
mentale e morale rispetto alle invasioni ed ai modelli culturali
stranieri.
E' una operazione culturale
fondamentale per enucleare, su nuove basi, l'identità culturale del
Meridione d'Italia.