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CONTROSTORIA FUTURA

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La mia carriera militare in Marina

 

Da poco tempo ero stato ammesso al VII Corso Preliminare per Ufficiali di Complemento destinati al Corpo delle Armi Navali, quando in uno degli ultimi giorni del giugno 1942, mi convocò l’Ammiraglio Comandante di quel Corso e mi chiese se volevo entrare, come interno, in Marinelettro.

Marinelettro era l’Istituto elettrotecnico della Marina ed era ubicato in un fabbricato sito all’interno dell’Accademia Navale. Naturalmente  accettai subito e di buon grado. Il giorno dopo mi presentai in Marinelettro e fui ricevuto dal prof. Ugo Tiberio, che ne era il Direttore, e dal suo assistente, il prof. Sante Malatesta. Come me erano stati selezionati altri sei allievi tutti laureati in ingegneria elettrotecnica.

Apprendemmo che da poco tempo i due professori stavano studiando e progettando un apparato elettronico destinato a identificare e localizzare a distanza obiettivi altrimenti non localizzabili con gli usuali sistemi ottici. Noi sette eravamo stati chiamati per collaborare allo studio di quell’apparato che, battezzato Radiotelemetro, doveva essere realizzato, per esigenze belliche, nel più breve tempo possibile.

Nei giorni successivi, durante brevi pause nell’attività di lavoro, il prof. Tiberio ci illustrò le circostanze che avevano motivato le decisioni del Ministero della Marina circa l’avvio degli studi ai quali eravamo stati chiamati.

Dopo il disastro di Capo Matapan, che  aveva evidenziato la nostra completa impreparazione al combattimento notturno,  fu aperta un’ inchiesta per accertare le cause di una così grave disfatta navale e fu avviato un procedimento penale a carico degli ufficiali ritenuti responsabili di quel disastro che aveva provocato, oltretutto, la perdita di numerosissime vite umane. Su tale procedimento penale ricordo anche di aver visto, negli anni cinquanta, un film che mi piacerebbe tanto rivedere ma che credo sia confinato nel fondo di chi sa quale cineteca. 

A quel procedimento si presentò, come testimone a discarico, il prof. Tiberio che rese noto alla Corte l’esistenza e il funzionamento dei Radar che, installati sulle proprie navi, avevano consentito agli Inglesi di colpire le nostre navi anche in piena notte. Gli imputati vennero prosciolti.

Il prof. Tiberio aveva già da tempo intuita l’applicazione di una teoria basata sulla riflessione delle onde elettromagnetiche, teoria alla base del funzionamento dei Radar, e fin dal 1935 aveva chiesto al Ministero della Marina, lo stanziamento di fondi per lo studio e la realizzazione di un apparato necessario per la navigazione nella nebbia, così  l’aveva chiamato. La sua richiesta non fu presa in considerazione.

In breve tempo i fatti arrivarono all’orecchio di Mussolini che convocò il professore per avere le più complete informazioni su una materia che, ormai, doveva essere considerata di vitale importanza per il combattimento notturno. Alla fine del colloquio egli chiese di quali risorse avesse bisogno il Tiberio per realizzare nel più breve tempo l’apparato in questione. E così fu dato inizio all’attività di studio e di progettazione alla quale anch’io fui poi chiamato. Il prof. Tiberio che, pur promettendo il massimo dell’impegno, aveva evidenziato la difficoltà di eguagliare tecnicamente gli Inglesi che avevano almeno sette anni di maggiore esperienza, raccomandò a tutti noi la massima concentrazione e il massimo impegno per guadagnare anche pochi mesi o pochi giorni sui tempi di realizzazione.

Lo studio dell’apparato fu suddiviso in blocchi ed io fui assegnato al piccolo gruppo che, sotto la guida del professore e del suo assistente, doveva progettare il trasmettitore che, con il ricevitore affidato ad altri, costituivano le parti principali dell’apparato.

C’è da dire che a quell’epoca, l’elettronica faceva i primi passi ed era ad un livello che può essere considerato preistorico rispetto all’ elettronica che venti anni dopo ha consentito di raggiungere i traguardi, attualmente anch’essi in piena e inarrestabile evoluzione.

Gli studi giunsero nel giro di pochi mesi ad un livello sufficiente per la progettazione e la realizzazione di una serie prototipale di 12 unità, per la realizzazione delle quali vennero commissionate alla Allocchio-Bacchini, alla Safar, alla Geloso, alla Fimet  e ad altre ditte minori, parti elementari che, realizzate e da noi collaudate sul posto, venivano poi assemblate, sempre da noi presso Marinelettro.

Fu deciso che i prototipi sarebbero stati installati a bordo di navi a cura dei Navalarmi di Trieste, Taranto, Messina, Napoli, La Spezia e Genova, ove dovevano essere trasferiti sei di noi, mentre il settimo sarebbe stato assegnato al Comando delle Forze Navali da Battaglia ubicato sulla Corazzata sede del Comando della Flotta. La sorte assegnò a me quest’ultimo ruolo e così divenni, di fatto, il coordinatore del servizio Radar della flotta.

Il 5 gennaio 1943, pur se ancora frequentavo Marinelettro Livorno per aggiornamenti tecnici, mi presentai all’Ammiraglio Bergamini, comandante in capo della flotta, che all’epoca aveva sede sulla Corazzata Littorio (chiamata poi Italia dopo la caduta del fascismo). La Corazzata Roma, sede ufficiale del comando della flotta, al momento si trovava, per riparazioni, in cantiere a Genova perché precedentemente danneggiata durante un attacco aereo nemico mentre era in rada nel porto di La Spezia.

Nei mesi successivi svolsi una intensa attività, tra l’altro molto apprezzata dall’Ammiraglio Bergamini che la seguiva con particolare interesse per le sue novità tecnologiche in via di sperimentazione.

Mi dava del tu e mi considerava la sua mascotte (avevo ventidue anni). Il mio contatto con lui era quotidiano perché il suo ufficio, al centro del Torrione della nave, ed era ubicato a breve distanza dal mio. 

Nella notte del 10 luglio 1943, le forze navali Anglo-Americane avevano attaccato Augusta, sulla costa orientale della Sicilia, conquistando Siracusa la sera del medesimo giorno. Il giorno 11, quella piazzaforte fu occupata via terra; vana una controffensiva locale. Gli Italiani, appresa la notizia, rimasero sbigottiti: il nemico aveva messo piede sul territorio nazionale; pochi giorni prima Mussolini aveva dichiarato che quella piazzaforte era imprendibile e che gli Alleati, se avessero tentato lì uno sbarco, sarebbero rimasti sul bagnasciuga (avrebbe dovuto dire battigia).

Ricordo perfettamente che l’ammiraglio Bergamini,  appena ebbe notizia dell’attacco alleato ad Augusta, ordinò alla flotta il “pronti a partire in due ore” per andare a contrastare il nemico. Poi l’ordine fu il “pronti a partire in sei ore” e poi a mano a mano l’ordine fu completamente annullato. Evidentemente non erano pervenute disposizioni da parte dell’autorità centrale. Dopo pochi giorni il Gran Consiglio del Fascismo metteva in minoranza Mussolini che fu destituito e arrestato per ordine del Re. Il 25 luglio 1943, l’ammiraglio Raffaele De Courten fu nominato ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina nel nuovo Governo affidato dal Re al Generale Pietro Badoglio.

A bordo della flotta le notizie trapelavano per vie traverse perché da qualche giorno erano stati requisiti tutti gli apparecchi radio ed erano state sospese le franchigie. A bordo delle navi l’atmosfera cominciava ad essere incandescente a seguito della protesta generale di uomini imbarcati e pronti a dare la vita per la difesa della patria che si vedevano consegnati a bordo senza alcuna spiegazione. Per placare gli animi fu dato incarico al comandante Bottiglieri, imbarcato sulla corazzata Littorio (poi ribattezzata Italia) di tenere una conferenza agli ufficiali di tutte le navi della flotta, di stanza a La Spezia, per illustrare la contingente situazione militare che si era improvvisamente aggravata per effetto dell’ imprevisto sbarco degli alleati in Sicilia.

Quello che il comandante Bottiglieri ci riferì ha dell’incredibile. In sintesi: esordì brevemente dichiarando che la decisione di nascondere le disastrose ultime notizie era stata presa solo per evitare che negli equipaggi si diffondesse il panico mentre i vertici militari decidevano sul da farsi. Poi proseguì: “La piazzaforte di Augusta effettivamente, come aveva affermato Mussolini, era imprendibile perché era munita di numerose postazioni di cannoni da 381 mm. a lunga gittata che, opportunamente protetti da attacchi aerei, non avrebbero consentito a nessuna flotta  di avvicinarsi e tanto meno di attuare uno sbarco. Tuttavia tre impreviste calamità avevano vanificato, in brevissimo tempo, tutta quella solida impostazione difensiva.

Secondo una disposizione del comando della piazzaforte, in caso di interruzione delle linee telefoniche, tutte le batterie dovevano agire a similitudine della batteria comando.

Allorché la flotta alleata comparve all’orizzonte, fu dato inizio ad un nutrito fuoco di sbarramento ma dopo soli pochi minuti, per motivi imprevisti, andarono fuori servizio le linee di comunicazione. Attimi di disorientamento, ma subito dopo, secondo il regolamento, tutte le batterie ripresero a sparare a similitudine della batteria comando. 

Poi la seconda calamità. Per un errore nella chiusura, nella batteria comando saltò un otturatore e la postazione rimase fuori uso. Le altre batterie, sempre in applicazione del regolamento, interruppero i tiri; pare anche che qualcuno fece saltare gli otturatori della propria batteria.

Non vi erano altre difese; c’era solo una compagnia di “Camicie Nere” addette alla sorveglianza; il comandante della piazzaforte - intanto le navi alleate si avvicinavano - si affrettò a prendere contatto con il comando tedesco di stanza a Palermo per segnalare la situazione e chiedere il necessario intervento. Poiché i Tedeschi disponevano solo di fanteria appiedata fu deciso che l’Autocentro italiano avrebbe provveduto al trasferimento delle truppe tedesche facendo la spola tra Palermo ed Augusta. E qui l’ultima calamità: nella fretta di tornare a Palermo per un successivo viaggio, i soldati tedeschi, affardellati, venivano scaricati lontano da Augusta e dovevano marciare per dodici chilometri. Quando i primi reparti arrivarono, gli Alleati erano già sbarcati e avevano conquistato la testa di ponte».

Tralascio di riferire i commenti dei presenti!

La vicinanza del mio ufficio a quello dell’ammiraglio Bergamini mi consentiva si sentire quello che lui urlava al telefono quando parlava con “Supemarina”. Egli voleva fermamente contrastare il nemico nel Mediterraneo e, al ministro che gli ordinava in modo perentorio di rimanere alla fonda a La Spezia perché, affermava, la flotta sarebbe stata sopraffatta dalla flotta inglese, Bergamini, che non era affatto convinto che la sua flotta sarebbe stata sopraffatta, urlava al telefono: “La mia anima di marinaio e di artigliere non mi consentono di rimanere fermo quando il nemico ci attacca. Io e tutti i miei equipaggi siamo pronti ad affrontare il nemico anche a costo della vita ma a tutela dell’onore della Marina e nostro personale!”. Nonostante le sue violente pressioni la flotta rimarrà in porto fino all’8 settembre 1943.

Dal giugno 1942 i mesi volarono fino al 15 agosto 1943, quando il Ministero della Marina invitò l’ammiraglio Bergamini a disporre per l’installazione di un apparato Radar sulla nave «Da Noli» che si trovava nei cantieri di La Spezia per riparazioni. Naturalmente il Bergamini dette a me quest’incarico e mi precisò che per tale lavoro avevo a disposizione 15 o al massimo 20 giorni. Molto sommessamente feci notare che era molto improbabile che in un tempo così breve avrei potuto realizzare quanto richiesto, specialmente per la necessità di realizzare su quella nave un apposito traliccio sul quale sistemare le antenne direzionali, di destinare e sistemare, sotto coperta, un idoneo locale per l’ ubicazione della consolle di comando dell’apparato e, in più, realizzare tutti i complessi collegamenti tra il posto di comando e le antenne direzionali. La risposta fu secca: «In Marina ci si deve arrangiare». Ma l’Ammiraglio dette le opportune disposizioni all’Ammiraglio comandante dell’Arsenale di La Spezia perché mi fosse prestata tutta la necessaria collaborazione.

A distanza di tanti anni, non so neanch’io come ho fatto; certo che, lavorando oltre diciotto ore al giorno, mi potetti presentare al mattino del 7 settembre 1943 all’Ammiraglio per comunicargli che l’apparato era stato installato e collaudato. A momenti mi abbracciava e mi dichiarò che mi aveva dato quell’ordine ma anche lui non credeva che ce l’avrei potuto fare. Mi chiese che premio avessi gradito ed io trovai il coraggio di chiedere qualche giorno di permesso per andare a Napoli a far visita ai miei. Mio padre era molto malato di cuore, non aveva mie notizie ed ero certo che una mia visita, anche se brevissima, sarebbe stata per lui di enorme conforto. L’Ammiraglio mi disse: «Ti darei volentieri questo permesso, ma come farai a raggiungere Napoli?». In quel tempo i Tedeschi erano al Nord, gli Alleati al Sud e le comunicazioni tra Nord e Sud erano interrotte. «Farò il possibile» gli dissi e lui con un sorriso: «Sistema la contabilità del lavoro e parti appena possibile. Ti darò cinque giorni di permesso». Io che sono stato sempre piuttosto preciso, avevo quotidianamente sistemato la contabilità che era perciò già pronta. Glielo dissi e lui: «Allora puoi partire oggi stesso». Alle ore 17,00 di quel 7 settembre lasciai la Littorio.

Tra il 7 e l’8 settembre, il comando della flotta, costituito da circa 300 elementi al seguito dell’Ammiraglio Bergamini,  si trasferì su nave Roma - a lavori ultimati era pronta ad accogliere il Comando della flotta - dove venne trasportato, da marinai addetti, anche il mio bagaglio.

L’8 settembre, con tutta la flotta, la nave Roma prese il mare verso il suo tragico destino. Per un caso assolutamente fortuito sono, quindi, l’unico superstite del Comando in Capo delle Forze Navali da Battaglia, perché tutto il comando, ubicato nel Torrione, rimase carbonizzato nell’esplosione della Santa Barbara della Torre Due, ove penetrò la bomba razzo lanciata da uno Stuka tedesco (con tale nome, all’epoca, venivano chiamati gli aerei tedeschi da “bombardamento in picchiata”, che in effetti erano i “DO217/K2” prodotti nelle officine di Claude Dornier[1]).

Come ho detto, a partire dall’8 settembre non mi trovavo più a bordo e i fatti accaduti dopo li ho appresi da altri, dai libri, dalla stampa. Ma di un fatto sono assolutamente certo: l’ammiraglio Bergamini non aveva alcuna intenzione di consegnare la flotta agli Alleati.

In effetti egli, comandante delle Forze Navali da Battaglia, non sapeva, e questo per me è un fatto incomprensibile, che nelle segrete clausole dell’armistizio era stato già decisa  la consegna agli alleati della nostra flotta a scomputo dei danni di guerra.

Come ho sentito dire successivamente, quando la flotta finalmente salpò, egli era diretto in un porto neutro di Spagna per farsi internare in attesa degli eventi. Ci sono voci contrastanti ma, conoscendo molto bene l’ammiraglio e la sua personalità, penso di poter affermare che il Bergamini non avrebbe in nessun caso accettato di consegnare la flotta al nemico rinunciando a combattere per la difesa della Patria e per l’onore della Marina. D'altronde nessuno può affermare con sicurezza di conoscere come andarono le cose, quali erano le intenzioni e le decisioni dell’ammiraglio.

Orbene, il comando della flotta passò ad altro ammiraglio, ma dopo la morte di Bergamini o prima?

A bordo della nave Roma c’era stato, fino al momento della partenza della Squadra navale, un ufficiale tedesco ... di collegamento. Egli di fatto aveva il compito di controllare e riferire. Poiché certamente avrà riferito al suo comando quali erano le intenzioni dell’ammiraglio Bergamini, c’è da ritenere che la Roma fu colpita per errore perché i Tedeschi non avrebbero avuto motivo di colpire lui.

Un fatto singolare, e anche questo conosciuto solo da pochi, è che al  Bergamini sono state conferite due medaglie d’oro alla memoria: una dal governo della Repubblica Italiana per il suo eroismo e una dalla Repubblica di Salò per non aver voluto consegnare la flotta al nemico.

Raggiunsi Napoli dopo tre giorni di peripezie. L’indomani mi presentai al Dipartimento Marittimo del Basso Tirreno dal quale fui preso in forza, a decorrere dall’8 settembre, nei ruoli di Maridipart-Napoli, con l’autorizzazione a rimanere a casa a disposizione. Il 30 aprile 1944 fui congedato dal temporaneo richiamo in servizio.

Dopo due anni mio padre ricevette una lettera del Ministero della Marina nella quale il comandante Giovannini, della Direzione Generale degli Ufficiali, scriveva: “ La cartolina postale che le accludo non fu mai consegnata al S.T.A.N. Giuseppe Fabozzi perché pervenne a bordo della R.N. Italia la sera prima della nostra partenza e non poté essere mandata sulla R.N. Roma dove egli trasbordò a seguito dell’ Ammiraglio Bergamini”. E prosegue: “Compio il dovere di inoltrarla a loro. Voglio sperare che per il lungo tempo trascorso, questa lettera non sia causa di rinnovato dolore, ma possa essere accolta come un ricordo da legare a quello del loro caro figliolo. Egli è stato brevemente alle mie dipendenze e lo ricordo con rimpianto e con simpatia”.

Due mesi dopo il Ministero della Marina mi comunicava che, “esaminato il suo comportamento all’atto e dopo la proclamazione dell’armistizio, esso è risultato conforme alle leggi dell’onore militare ed ai doveri derivanti dalla situazione contingente”.

Così si concludeva la mia carriera militare in Marina.

Dopo oltre venticinque anni, nel 1972, in occasione di un congresso dell’AEI (Associazione elettrotecnica italiana) che si svolgeva a Como, una sera, durante una cena in un albergo dove alloggiavamo, ero seduto ad un tavolo con altri congressisti e loro mogli. Di fronte a me era seduta mia moglie che, ad un tratto, mi disse: ”Non voltarti subito; in fondo alla sala c’è in anziano signore che da parecchio tempo ti fissa intensamente”. Dopo poco guardai nella direzione indicatami e riconobbi immediatamente il prof. Tiberio. Mi alzai per dirigermi verso di lui, ma non feci in tempo a muovere i primi passi che lui, di scatto, corse verso di me. Ci abbracciammo in silenzio e a lungo. Mi disse: “Avevo saputo che eri morto sulla Roma e, guardandoti, mi meravigliavo di vedere una persona che ti somigliava tanto. Gli raccontai tutto di me e passammo una bellissima serata. Con una punta di amarezza, ma con un sorriso sulle labbra, mi confidò la sua delusione per l’indifferenza mostrata dagli ambienti tecnici della Marina nei confronti della sua “invenzione” e per non aver raggiunto i risultati desiderati per quel complesso di circostanze che entrambi conoscevamo bene. Poi non l’ho visto più e credo sia morto poco tempo dopo.

Giuseppe Fabozzi

 

A CONFERMA

   A conferma delle intenzioni dell’ammiraglio Bergamini, riportiamo uno stralcio  della testimonianza di Luigi Di Paola, uno degli alti ufficiali convocati a rapporto nella sala del consiglio della “Roma”.

   Bergamini esordì dicendo che non poteva spiegare tutto e che molto egli doveva lasciare al loro intuito; ma comunicò esplicitamente, raccomandando agli ufficiali il segreto sulla parola d’onore, che: « le navi dovevano partire in nottata per La Maddalena e lì gli avvenimenti avrebbero trovato la più logica delle soluzioni».

   Il com.te Di Paola, a rapporto ultimato, all’uscita dalla Sala Consiglio, fu avvicinato dal suo amico com.te Petroni , Sottocapo di SM (Stato Maggiore) delle FF.NN.BB. (Forze Navali da Battaglia) il quale lo pregò di consegnare alla moglie l’orologio regolamentare che si sfilò dal polso, dicendogli, con aria mesta che sapeva di rassegnazione: « Tanto non mi serve più ormai!».

   Cosa avesse voluto dire Petroni , Di Paola non ebbe il tempo di chiedere, ma più tardi fu più esplicito il com.te Garofano, che ebbe a dirgli, oltre a dover distruggere presso il Comando della R. Marina di Lerici, l’archivio segreto: «...raggiungimi sul “Regolo”; non portare nulla con te, neanche il corredo da militare o quello civile, anch’io farò lo stesso, tanto esso non ci serve più; a La Maddalena, molto probabilmente le navi verranno autoaffondate ed ognuno se ne andrà per il suo destino».

Questo disse testualmente il comandante Garofalo, il quale, a rapporto ultimato, aveva avuto ancora uno scambio di vedute a quattr’occhi con l’ammiraglio Bergamini.

   Le parole di Petroni risultavano, ora, più che chiare: le navi partivano per La Maddalena, forse per autoaffondarsi, ma non per Malta, come poi, invece avvenne a seguito degli avvenimenti imprevedibili che sarebbero sopraggiunti.

 

Stralciato dalla testimonianza di Luigi Di Paola, A rapporto dall’ammiraglio Bergamini, a pp. 39 e 40 del supplemento alla “Rivista Marittima” del gennaio 2004: Una giornata da non dimenticare – La rievocazione dell’8 settembre 1943 nei ricordi e nelle impressioni dei protagonisti.

 

 

 

 



[1] Claude Dornier (1884-1969) era un ingegnere di origine francese, naturalizzato tedesco prima della prima guerra mondiale, che iniziò la sua carriera nelle officine del conte Zeppelin, a Friedrichshafen, e che poi aprì nella stessa città una fabbrica sua.