A soli cinque mesi dagli entusiasmi popolari suscitati dalla riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma, Napoli si avviava a vivere un ottobre memorabile. Era, infatti, costume del tempo far coincidere l’anniversario della Rivoluzione delle Camice Nere con l’inaugurazione di significative opere pubbliche sì da accrescere l’impatto della propaganda sull’emotività collettiva. Ma quell’anno, il XIV dell’Era Fascista, per la rilevanza e l’alto numero di opere pubbliche ultimate, a Napoli s’impose la necessità di dedicare alle cerimonie ufficiali ben tre date: il 1°, il 28 ed il 31 d’ottobre.
Delle tre, la prima doveva segnare l’entrata in funzione della Stazione Marittima del Littorio progettata da Cesare Bazzani. Nella seconda, più impegnativa per la coincidente celebrazione dell’anniversario della Marcia su Roma, si sarebbe invece tenuta la cerimonia del taglio del nastro inaugurale per il Palazzo della Provincia disegnato da Canino e Chiaromonte, la strada portuale d’accesso al Pontile “Duchessa d’Aosta”, la Stazione Profilattica del Porto, la banchina di collegamento tra il Pontile Vittorio Emanuele II e il Molo Cesario Console, il Palazzo dei Grandi Invalidi in Via Tino da Camaino, le Case Popolari ai Ponti Rossi, la strada di circumvallazione di Castellammare di Stabia. La terza, infine, avrebbe vista l’inaugurazione del monumentale Palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro.
Sull’imponenza delle opere e sui tempi occorsi alla loro realizzazione, la stampa poneva sistematicamente l’accento. L’architettura funzionale e celebrativa, le masse operaie e la loro capacità di superare le difficoltà dell’impresa in tempi pressoché sconosciuti al tramontato regime liberale, rappresentavano, infatti, gli strumenti valutativi del grado d’efficienza dell’Ordine nuovo e, soprattutto, testimoniavano la definitiva chiusura dei conti con l’insano clientelismo del passato.
Negli ultimi decenni i governi parlamentari liberali e democratici – ricordava Araldo di Crollalanza, Sottosegretario ai Lavori Pubblici nel ’29 - nell’altalena del potere, pur erogando somme notevoli per le opere pubbliche, vivendo alla giornata, senza una qualsiasi disciplina di lavoro, incapaci e impossibilitati ad inquadrare, in vasti panorami ed in organici programmi, le necessità del Paese, si servirono del Ministero dei lavori pubblici, solo come strumento elettorale, sviluppando al massimo grado il malcostume politico, e trasformando l’Amministrazione, che avrebbe dovuto essere la base della rinascita economica ed igienica della Nazione, in una fonte perenne di compromesso fra potere esecutivo, potere legislativo e popolo. Difficilmente un’opera pubblica, nel vecchio Regime, nacque, si eseguì ed ebbe compimento, come espressione degli interessi generali del Paese, ma fu il più delle volte – specie negli ultimi tempi, ed in modo più accentuato nel Mezzogiorno, - la risultante di un mercato conchiuso, alla vigilia delle elezioni o in vista di una crisi ministeriale, fra gruppi parlamentari e potere centrale, oppure rappresentò l’epilogo di una agitazione di piazza, alla quale lo Stato dovette cedere, volente o nolente, per assicurare l’ordine pubblico, con tradizionale sacrifizio della propria autorità. […]
Il Fascismo agì su tale deprecabile malcostume radicalmente, giacché, lontano dall’essere un regime parlamentaristico-elettorale, riuscì a sottrarre il Ministero dei Lavori Pubblici agli interessi ed alle interferenze d’uomini, lobbies e situazioni locali e ad adeguarlo agli obiettivi politici della nuova era. Traguardi che, sostanzialmente, s’identificavano nella valorizzazione economica del Paese e nella risoluzione dell’annosa questione meridionale in termini d’infrastrutture, bonifiche socio-urbanistiche e funzioni strategiche.
Nel primo decennio di vita, infatti, il Regime oltre ad investire notevoli risorse economiche - in special modo nel Mezzogiorno - per le infrastrutture (ferrovie, opere idrauliche ed impianti idroelettrici, strade, porti), produsse l’aggiornamento della legislazione in materia di lavori pubblici, che in alcuni casi era rimasta ferma alla legge fondamentale del 1865, e la creazione d’importanti Istituti quali: l’Ispettorato della Maremma Toscana, i Provveditorati alle opere per il Mezzogiorno e le Isole, l’Ispettorato alle opere Pubbliche, l’Azienda autonoma della strada e l’Alto Commissario di Napoli.
Ma torniamo al 1° ottobre del ‘36.
Quella della Stazione Marittima del Littorio non poteva essere una semplice inaugurazione.
Il monumentale, candido edificio di Bazzani affondava, infatti, le sue fondamenta nelle attese – sistematicamente deluse - di quel riscatto economico a lungo vagheggiato dal popolo napoletano. Speranze che Giovanni Orgera, Podestà di Napoli non mancò di ricordare nella prolusione ufficiale: “questo superbo edificio si apre al grande traffico internazionale potenziando e perfezionando – per i compiti più vasti del domani – l’attrezzatura del nostro Porto, verso il quale già convergono le più forti correnti turistiche d’oltre oceano, verso il quale già si incanalano il movimento ed i traffici col conquistato Impero. V’è in ciò un nuovo segno della lungimirante visione del Duce, una nuova affermazione del programma di rinnovamento che il Regime ha provvidamente tracciato per questa nostra città, una nuova conquista ed insieme una nuova spinta verso il cammino che ancora ci attende […]. Napoli che nella rapida marcia verso l’avvenire vede nel Porto il fulcro della sua azione e la fonte prima della sua economia”.
Già, perché per Napoli, dopo circa un secolo di storia unitaria, il porto continuava ancora a rappresentare la fonte prima della sua economia, sebbene nella cosiddetta Zona Aperta, fosse in fase di formazione quel retroterra produttivo - imprescindibile per alimentare i traffici portuali – che Nitti e Giolitti vollero creare con la Legge speciale, promulgata l’8 luglio 1904, per il risorgimento economico della città di Napoli.
Scompaginati dall’invasione savoiarda i piani di Ferdinando II per industrializzare il Regno delle Due Sicilie, all’ex capitale non rimaneva altro da fare che aggrapparsi con ogni residua forza al suo porto poiché esso rappresentava – pur con tutti i limiti - l’architrave del sistema economico partenopeo.
La posizione geografica assegnatagli dal Creatore ed il rinnovato interesse per le rotte mediterranee determinato dal taglio dell’Istmo di Suez, alimentarono per tutta la seconda metà dell’Ottocento – grazie anche alla complicità della classe politica nazionale e locale - l’illusione che lo scalo napoletano potesse diventare l’irrinunciabile riferimento per i flussi mercantili diretti o provenienti dal Levante. Il porto dell’ex capitale borbonica divenne così, almeno nelle pubbliche dichiarazioni d’intenti, il Porto dell’Oriente.
In realtà, il progresso tecnologico e, soprattutto, la rivoluzione industriale avevano spostato l’asse economico dal Mediterraneo all’Europa continentale cosicché il porto di Napoli pur trovandosi al centro del bacino del Mare Nostrum, risultava eccentrico rispetto ai mercati ed ai siti produttivi europei. Il dover poi superare gli ostacoli frapposti da due catene montuose con collegamenti ferroviari e stradali, allo stato embrionale o del tutto inesistenti, rendeva l’approvvigionamento di materie prime attraverso l’attracco partenopeo del tutto improponibile.
Quello di Napoli, malgrado ciò, negli anni che precedettero la Grande Guerra, era senza dubbio il porto più importante d’Italia e tra i maggiori del mondo per quel che riguardava il movimento dei passeggeri. Sui moli e sulle banchine dello scalo transitava mediamente ogni anno circa un milione di persone. Un numero considerevole anche se a ben guardare, il dato statistico riassumeva nella voce “ passeggeri” tutte le tipologie di viaggiatori: quelli del cabotaggio del Golfo e della penisola, delle rotte trans-mediterranee, e, soprattutto, dell’enorme massa di diseredati diretta negli States. Tale primato sarebbe stato, in ogni modo, fortemente ridimensionato nel ‘21 dalle leggi statunitensi sull’emigrazione ed, in un secondo momento, dal Governo fascista con gli interventi per il popolamento e la valorizzazione agro-industriale dei territori italiani di là del Mediterraneo.
Per quel che riguardava le merci, nello stesso periodo, il porto di Napoli cominciava a registrare sensibili miglioramenti dovuti in buona sostanza alle produzioni dell’area industriale in via di sviluppo che si trovava a ridosso dello scalo, appena oltre i Granili di borbonica memoria. Gli apprezzamenti e le richieste dell’ormai consistente comunità italo-americana, determinavano forti incrementi delle esportazioni negli Stati Uniti dei prodotti alimentari. Sul versante delle importazioni, invece, a Napoli si scaricavano rilevanti quantità di carbone, provenienti dai porti inglesi e tedeschi, di grano dal Mar Nero, ed in misura minore di petroli e di oli minerali dall’Iran e dal Mar Nero. Sulle banchine, inoltre, transitavano discreti volumi di cotone, legnami, cementi, caffé, baccalà, carni, pelli, juta, e tutto quanto poteva soddisfare le richieste d’un mercato regionale.
L’andamento complessivo del movimento mercantile del porto, già di per sé non esaltante, era però destinato a peggiorare. Il progresso delle tecnologie – l’energia elettrica per la trazione ferroviaria e le produzioni industriali, la nafta per la navigazione – comportava, infatti, la diminuzione progressiva del carbone importato dall’Europa del Nord. Anche il grano, che da sempre rappresentava una voce non irrilevante nell’economia dei traffici marittimi napoletani, si avviava a far registrare progressivamente indici negativi per effetto della Battaglia del Grano intrapresa dal Regime. Mussolini, infatti, aspirava a ridurre il deficit, portando la produzione cerealicola all’autosufficienza e contribuendo, in tal modo, a vincere l’altra grande “battaglia” ovvero la rivalutazione della lira, condicio sine qua non per ottenere una spinta economica non indifferente, i cui effetti avrebbero investito vari settori dell’economia nazionale.
In definitiva, a condizionare le attività del Porto di Napoli non erano le sole leggi di mercato e l’inesistenza di un retroterra industriale, ma concorrevano in misura rilevante anche le dimensioni dello scalo e gli arredamenti spesso inesistenti di moli e banchine. Il porto ereditato dallo Stato unitario rimase nella condizione in cui l’avevano lasciato i Borbone, sebbene non fossero mancati validi progetti d’ammodernamento, sino alla seconda metà dell’Ottocento, quando il primo grande ampliamento, su progetto di Domenico Zainy, portò il confine orientale in prossimità della Villa del Popolo. La spinta, quindi, esercitata dalla legge speciale per il risorgimento economico di Napoli, produsse nel primo decennio del Novecento una nuova espansione della falce portuale verso Vigliena. Ampliamento questo che però rimase sostanzialmente incompiuto.
L’avvento del Fascismo trovò, quindi, un porto congestionato, con gravi carenze nell’arredamento e con lavori d’ampliamento e messa in sicurezza dalla conclusione quanto mai incerta ed onerosa. Le prospettive non erano certo incoraggianti, però…
Tra gli impegni essenziali affidati da Mussolini al nuovo movimento politico, non secondaria era la valorizzazione ed il rilancio dell’economia marittima. Lo statista, infatti, riteneva assolutamente inaccettabile che l’Italia, con un’estensione costiera di circa 9mila Km ed una posizione baricentrica nel Mediterraneo, non cercasse di ricavare da questi suoi privilegi il massimo tornaconto possibile a beneficio del dissestato bilancio nazionale.
Fu così che nei primi anni del suo governo, senza trascurare le necessità dei porti minori, purché rispondenti ad esigenze di sicurezza della navigazione o di pesca, il Capo del Governo avviò l’ammodernamento dei porti di Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Palermo,Catania, Bari, Ancona, Venezia, Trieste e Fiume. Ma la sua attenzione era focalizzata sul triangolo Napoli, Bari, Palermo da cui doveva ripartire la riconquista commerciale del Mediterraneo. Delle tre grandi città marinare del Mezzogiorno, Napoli, dopo aver atteso invano per oltre un sessantennio di diventare il Porto dell’Oriente, per volontà del Capo del Governo, assurse al rango di Regina del Mediterraneo.
Per accelerare la trasformazione dell’antica capitale del Mezzogiorno, il 15 agosto 1925 il Regime istituì l’Alto Commissariato per la città e la provincia di Napoli, affidando al commissario – Michele Castelli – le funzioni tecniche, amministrative e finanziarie su tutti gli interventi pubblici fino allora esercitate dal Ministero dei Lavori Pubblici e dalle diverse amministrazioni pubbliche.
In soli cinque anni, il porto, grazie ad uno stanziamento di 200milioni di lire e ad una razionale programmazione dei lavori, prese rapidamente a cambiar volto. La sicurezza degli specchi acquei dei bacini fu assicurata dal completamento della diga foranea e dalla costruzione, in testa al molo S. Vincenzo, della diga Duca degli Abruzzi progettata da Luigi Greco, ingegnere capo del Genio Civile Opere Marittime e professore di Costruzioni Marittime dell’Istituto Superiore Navale di Napoli. Il prolungamento della diga dei Granili, l’ampliamento del molo Vittorio Emanuele II, la costruzione di due banchine di riva intercalate da due lunghi moli – Duchessa Elena d’Aosta e Giovanni Bausan – cadenzarono, infine, l’espansione della falce portuale ad oriente.
Pietro Baratono, sostituto di Castelli alla guida dell’Alto Commissariato, terminò l’ammodernamento dei porti minori di Capri, Portici, Torre del Greco e Castellammare di Stabia. A Napoli, intanto, si continuavano ad allargare i moli Carmine e Beverello e a trasformare forma e dimensioni di quello Angioino su cui sarebbe sorta la monumentale Stazione Marittima del Littorio. Il nuovo edificio doveva sostituire quello assolutamente inadeguato all’entità del movimento passeggeri, realizzato da Luca Cortese laddove oggi si trova l’edificio dell’Autorità Portuale. A metà luglio 1934, infine, a completamento del potenziamento dell’importante infrastruttura, cominciò sulla testata del molo Cesario Console, la costruzione del più grande bacino di carenaggio d’Europa, l’unico in grado di accogliere navi lunghe oltre 300 m.
In definitiva, nel giro di pochi anni il Governo fascista sistemò il porto e lo elevò a terminal principale del turismo crocieristico internazionale concentrandovi varie flotte minori, i servizi sovvenzionati del Tirreno, il capolinea dei collegamenti con le nostre colonie africane ed uno scalo obbligato per le grandi linee di navigazione transoceaniche e per l’Oriente.
Ma non era ancora finita.
In quegli stessi anni, infatti, stavano maturando le condizioni, auspicate da molti, perché il Porto di Napoli finalmente diventasse il baricentro dei flussi mercantili provenienti dalle terre italiane d’oltremare.
In una sperduta landa dell’Ogaden, infatti, alla fine del 1934, ai pozzi di Ual Ual, si ebbe l’ennesima scaramuccia tra bande di guerrieri abissini e truppe regolari italiane. L’episodio segnò l’accelerazione dei preparativi per l’invasione dell’Etiopia che cominciò il 3 ottobre 1935. Preparativi che interessarono lo scalo napoletano con tale intensità da fargli assumere la funzione di “testa di ponte” per l’Africa Orientale. Dai moli e dalle banchine partenopee, infatti, gradatamente partì alla volta della colonia primigenia un contingente di circa mezzo milione d’uomini tra militari, tecnici e lavoratori e di altrettante tonnellate di materiali.
Sette mesi circa d’aspri combattimenti sulle ambe e tra le savane abissine, consentirono a Mussolini il 9 maggio del IVX anno dell’E.F. di annunciare al mondo intero, l’avvenuta conquista dell’Impero italiano. Da quel momento iniziava la fase più delicata dell’intera operazione: colonizzare e valorizzare i territori dell’A.O.I. le cui risorse erano del tutto sconosciute e nei quali la pace era lungi dall’essere stata ristabilita.
Napoli aveva fornito all’Impresa africana, in termini d’infrastrutture e servizi logistici, un apporto non marginale, pertanto, Mussolini, il cui affetto per la città era ben noto, volle conservarle il privilegio conquistato sul campo accrescendo la valenza del Porto dell’Impero. In realtà, il Regime già da tempo era impegnato a rendere maggiormente concreta e visibile la funzione svolta dal capoluogo campano di collettore dei flussi mercantili coloniali. L’azione del Governo sostanzialmente s’identificò con la costituzione di quel retroterra produttivo, costituito dall’insieme della provincia di Napoli e della Terra di Lavoro (Caserta), in grado di impedire che i cargo dopo aver scaricato a Napoli il contenuto delle proprie stive riprendessero il largo con le stesse zavorrate o addirittura vuote.
La preparazione all’invasione dell’Etiopia e la sua successiva “normalizzazione” favorirono indubbiamente una prima ripresa delle industrie ancora scosse dalla crisi economica del ’29, ed alla quale corrispose una più intensa e frenetica attività del porto. Ma l’affermarsi dell’economia autarchica come risposta alle sanzioni economiche della Società delle Nazioni spinse i responsabili dell’economia partenopea a nuove realizzazioni.
Il prefetto Marziali, a marzo del ’39, rivolgendosi al Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa di Napoli, sottolineava così le due fasi economiche in via di sviluppo: “ Il riassetto delle officine meccaniche aviatorie di Castellammare; l’impianto dello stabilimento della Società Anonima Metallurgica, nella zona industriale di Napoli; la riattivazione dello stabilimento del Rayon e poi ancora la costituzione del Canapificio Partenopeo a Frattamaggiore e l’espansione delle Cotoniere Meridionali a Frattamaggiore stessa, nonché la intensificata attività dell’industria alimentare davano inizio alla effettiva ripresa nel campo della produzione e del lavoro.
La sistemazione integrale dell’industria del vetro bianco, l’inizio dell’attività dello stabilimento della calce di Castellammare di Stabia, l’impianto in Castellammare stessa di una industria per la conservazione del latte, la sistemazione economica ed il potenziamento tecnico delle Officine Ferroviarie Meridionali e dello stabilimento per aeroplani “Romeo” onde fu preservato un mirabile complesso industriale che era una nobile tradizione di Napoli, segnavano un’altra tappa della grande ripresa.
La lungimirante visione del Duce, intanto, destinava a Napoli l’impianto di una delle maggiori raffinerie di petrolio e così, nel 1937, venivano inaugurati quei nuovi grandi stabilimenti che sono ora capaci di lavorare 250.000 tonnellate di petrolio greggio all’anno.
Poi le iniziative si sono succedute le une alle altre con fervida intensità. Nel settore metallurgico meccanico, l’ILVA ha dato inizio alla sua trasformazione per l’attuazione del ciclo siderurgico integrale; a Capodichino è sorta una nuova officina aviatoria; la Ansaldo di Pozzuoli ha ampliato, meglio triplicato i suoi impianti; il siluruficio, trasportando l’impianto per la produzione dei siluri a Baia, ha aumentato di circa l’80% le sue possibilità produttive, mentre ha mantenuto per le altre lavorazioni l’antico stabilimento della zona industriale; lo zuccherificio di Capua ha dato inizio alla sua attività che sarà notevolmente proficua per la valorizzazione agricola e zootecnica della zona circostante; la Società Cellulosa – Cloro – Soda ha posto in efficienza a Napoli lo stabilimento per la produzione della cellulosa dallo sparto libico, mentre altra attività analoga andrà a svilupparsi a Capua.[…]. L’attività marittima è di vivo conforto per la crescente importanza dell’armamento napoletano; quello portuale specie ora che l’attrezzatura delle banchine e di depositi è diventata più completa è particolarmente notevole sia come traffico e di navi, sia come traffico di passeggeri e merci e altrettanto può dirsi dell’attività dei porti minori della provincia.
I valori delle importazioni ed esportazioni controllate dalla Dogana di Napoli, dal 1934 al 1937, sono risultati più che raddoppiati con le rispettive cifre di 899 milioni e di 887 milioni. A denotare lo accresciuto volume di affari si può rilevare che in un triennio il gettito della tassa scambio è salito da 26 a 39 milioni”.
In realtà, dopo un iniziale euforia, le migrazioni di uomini e merci verso le terre africane di recente conquista, si dimostrarono tutt’altro che incoraggianti. Gli stessi imprenditori, erano poco disposti ad investire capitali in A.O.I. per duplicare al di la del mare le produzioni nazionali. Per vincere ogni loro ritrosia Mussolini decise di dar vita a Napoli, all’antico ed irrealizzato desiderio della locale Camera di Commercio: una grande esposizione in grado di promuovere le produzioni nazionali destinate alle colonie, e di presentare agli industriali, in maniera dettagliata, le opportunità economiche, le infrastrutture e le peculiarità pedo-climatiche dei nuovi territori italiani in terra d’Africa.
Non a caso il compito di organizzare quella che il 9 maggio 1940 fu presentata dalla stampa locale come la Città dell’Impero, fu assegnato al consigliere nazionale Vincenzo Tecchio, vice presidente del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa di Napoli (Camera di Commercio), nominato per l’occasione Commissario per l’Esposizione Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare.
Tutto era stato meticolosamente predisposto acciocché Napoli potesse a tutti gli effetti diventare il Porto dell’Impero. Ma le attese, i desideri di riscatto economico e sociale dell’intera città, ancora una volta, furono destinati a rimanere tali. Il 14 dicembre 1940, infatti, a soli sette mesi dall’inaugurazione della Triennale d’Oltremare, preceduti da un terrificante sibilo, caddero sul porto i primi ordigni lanciati dal cielo dai bombardieri della Royal Air Force…
Lidio Aramu