Sono un avvocato del Foro di Roma. Da alcuni giorni è reperibile un volume che certamente potrà interessare i suoi lettori: l’Autobiografia di Erich Priebke. Questo non solo perché il caso giudiziario di cui si tratta è tra quelli che più fortemente degli altri gettano ombra sulla giustizia italiana, ma soprattutto perché stiamo parlando del più anziano prigioniero del mondo civile, per il quale i diritti umani (con i quali tanto ci si riempie la bocca nel nostro paese) sembrano ignorati. Mi limiterò in queste righe a farle solo un esempio tra i tanti casi di malagiustizia documentati nel libro. L’indulto, come l’amnistia, è un provvedimento clemenziale adottato con legge (con un D.P.R. per l’esattezza) e come tale, fermi restando i limiti oggettivi alle fattispecie di reato e di pene cui esso si riferisce, dovrebbe applicarsi a tutti e ciò in ossequio a quei principi universali cristallizzati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che vietano qualsiasi discriminazione fondata sul credo politico o sull’appartenenza etnica o sulla fede religiosa o sul sesso dell’individuo o su qualsiasi altro status. Il tutto a non voler considerare che il Trattato di Amicizia stipulato nel 1957 tra l’Italia e la Germania dispone che l’ordinamento giuridico di ciascuna parte contraente non deve mettere i cittadini dell’altra parte in situazioni meno favorevoli riguardo alla tutela della loro persona, di quella esistente in casi simili per i nazionali dell’altra parte e che le leggi di ciascuno Stato non possono contenere limitazioni, gravami o oneri particolari per i cittadini dell’altra parte. Erich Priebke ha chiesto di poter beneficiare dell’indulto del 1953 e dell’amnistia del 1966, ma le sue istanze sono state sempre respinte perché – per i giudici – il reato da lui commesso non poteva considerarsi politico in quanto era stato perpetrato nell’interesse dello Stato tedesco e non di quello italiano; l’amnistia del 1966 non poteva inoltre essergli concessa in quanto il Priebke non è cittadino italiano. Le pronunce delle Corti Militari d’Appello e della Corte di Cassazione hanno dunque fatto cadere il velo: Priebke è detenuto da otto anni non tanto per la gravità del crimine commesso, ma in quanto il suo reato non è stato realizzato nell’interesse dello Stato italiano ed egli non è cittadino italiano.”
Avv. Antonio Jezzi - Roma