Brevissimamente sul tema che Uccio de Santis mi ha assegnato,
"Vita quotidiana durante la guerra". Un tema che – ovviamente
- comporterebbe una trattazione in svariati volumi, ma che limiterò soltanto
a qualche episodio.
I miei ricordi di guerra sono quelli di un ragazzo, un balilla che stava per
diventare balilla moschettiere, che non era abbastanza grande per partecipare
alla guerra ed era ancora troppo piccolo per capire quello che stava succedendo
intorno a lui. Ricordi felici, insomma, che più si allontanano nel tempo
e più diventano tali, com’è ovvio che sia. Felici, perché,
malgrado, le tribolazioni, le sofferenze, la fame, quella vera - oggi, quando
ne parliamo, i nostri figli, i nostri nipoti non riescono a capirci, talvolta
ci deridono -, malgrado i bombardamenti che a partire dal 1942 divennero quotidiani,
diurni e notturni, restano felici, perché sono ricordi di gioventù.
Diciamo subito che nel 1940 avevo dieci anni, essendo nato nel 1930, il 30 marzo
1930. 30.3.30, un numero perfetto. Che è anche il giorno, il mese e l’anno
dell’uomo che mise per la prima volta piede sulla luna. Nell’anno
scolastico 1940-41 frequentavo la prima media presso la succursale del “Vittorio
Emanuele” in via Pasquale Scura. Una via che allora aveva ancora gli antichi
gradoni, prima di diventare una strada a scorrimento veloce, che sbocca in quello
che chiamo il fiume di via Toledo, un fiume che parte dai paesi del nord, attraversa
Capodimonte e sfocia in piazza del Plebiscito.
Quell’anno mi è particolarmente caro, perché mi ricorda
uno dei miei docenti che più ho amato, il prof. Antonio Cafiero, che
allora era anche il vice preside del “Vittorio Emanuele”. Per mia
fortuna il prof. Cafiero, docente di liceo, quell’anno, stanco di vedersi
arrivare in prima liceale ragazzi anche bravi che mancavano di solide basi,
decise di cominciare dalla prima media. Fortunatamente capitai proprio con lui,
che era talmente bravo da mettere, già all’inizio della seconda
media, non meno di una decina di noi in gradodi tradurre all’impronta
semplici versioni, che diventavano ogni giorno più difficili.
Purtroppo, anch’io sfollai, nel senso che, a febbraio del 1942, abbandonai
il “Vittorio Emanuele” e mi trasferii al "Cirillo" di
Aversa, distante da Giugliano, dove tuttora risiedo, non meno di sei chilometri,
istituto che a volte raggiungevo a piedi, perché non sempre funzionava
la "Piedimonte", la ferrovia che, allora, congiungeva Napoli a Piedimonte
d’Alife. Ricordo che a gruppi percorrevamo la distanza seguendo il percorso
del binario fino ad arrivare al "Cirillo". Ed è allora che
per me è cominciata la guerra vera e propria. Seguita poi dal dopoguerra,
che per molti versi, è stato più terribile, più tragico
della guerra stessa.
Non ricordo la dichiarazione di guerra, ma due episodi mi sono rimasti impressi:
il 25 luglio, o per essere più esatti il 26 luglio, e l’8 settembre.
Ad un certo punto, il giorno dopo la caduta del fascismo, il solito tam-tam
mi portò nei pressi della Casa del Fascio, ed assistetti allo spettacolo
che si replicava più o meno in tutte le città d’Italia:
buttare dalle finestre sedie, tavolini, ritratti, busti del Duce e quant’altro.
Mentre, giù, alcuni raggruppavano le suppellettili per darle alle fiamme.
Quello che mi colpì e che mi è restato indelebile in uno dei cassetti
della memoria, è che erano proprio alcuni ex fascisti, i più fastidiosi,
i più altezzosi, anche i più zelanti a darsi da fare, a buttare
giù tutto quello che gli capitava, gridando come ossessi. Gli stessi
che si preparavano a saltare sul carro del vincitore, come vuole un’inveterata
prassi italica. Ricordo perfettamente che uno tra i più accaniti, tra
i più attivi, era anche uno dei più scoccianti, dei più
arroganti quando vestiva la divisa di giovane fascista, un architetto che, poi,
allattò abbondantemente alle mammelle di mamma Democrazia Cristiana,
facendo larga incetta di incarichi e guadagni di grosso rilievo.
Anche per quanto riguarda l’8 settembre ho ricordi molto nitidi. Come
tutte le persone di una certa età, se voi mi domandate cosa ho mangiato
ieri, io neanche ve lo so dire, ma se chiudo gli occhi mi par di rivedere la
stessa scena, quel correre come pazzi in cerca di non so che, gli stessi episodi,
che si svolgevano più o meno in tutte le città della penisola.
Stavo, quel giorno, come i miei soliti compagni di gioco, Peppino e Giuliano,
quando ad un certo punto ci accorgemmo che tutti, uomini, donne, bambini, correvano
verso il campo sportivo, dove erano acquartierati un centinaio di soldati. Ci
aggregammo anche noi alla folla urlante. Era successo che, dopo la dichiarazione
del generale Badoglio con la famosa formula “la guerra continua”,
i soldati avevano abbandonato le caserme – vi ricordate il film “Tutti
a casa” con Alberto Sordi”? -, mentre la gente si dava al saccheggio.
Prendevano tutto quello che gli capitava sotto mano. Ad un certo punto incominciarono
a smontare le baracche, per portarsi le travi a casa. Capitò anche un
incidente molto grave. Una donna fu colpita da una trave e ci rimise la pelle,
nell’indifferenza generale di tutti gli altri che continuavano il saccheggio.
Anche io, Peppino e Giuliano partecipammo a quella follia collettiva. Ma arraffammo
solo un moschetto 91, alcuni pugnali e gli elmetti, che ci mettemmo in testa.
E, così conciati, ce ne tornammo verso casa. Arrivati a casa di Peppino
per poco suo zio non ci picchiò. Prese il moschetto, i pugnali e gli
elmetti e li buttò nel pozzo nero ubicato in un angolo del palazzo.
Ecco, questi, solo alcuni episodi del periodo di guerra. Sarebbe troppo lungo
raccontare di altri che riguardano il dopoguerra. Io dico sempre che per me
la guerra è finita negli anni Cinquanta. Ma mi fermo qui. Per evitare
che mi travolga l’onda dei ricordi, rischiando di annoiarvi. Grazie per
avere avuto la pazienza di ascoltarmi.
Luigi Argiulo