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CONTROSTORIA FUTURA

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Napoli capolinea della Battaglia dei convogli

Prima di entrare nell’argomento specifico del mio intervento, cioè il ruolo che ebbe la città di Napoli in quel fondamentale momento della II guerra mondiale che fu la cosiddetta “Battaglia dei convogli”, ritengo sia necessario un cenno al contesto storico e ambientale dell’epoca.
Innanzi tutto, quando parliamo di Battaglia dei convogli, ci riferiamo a quella che si svolse dal 1940 al 1943 nel mar Mediterraneo. Questa precisazione è necessaria, perché altre battaglie di convogli si svolsero nello stesso periodo; basti ricordare quella dell’Atlantico, che vide contrapposti gli U-boote tedeschi ai trasporti che dagli Stati Uniti d’America andavano a rifornire le truppe alleate nel settore europeo. Il termine “battaglia”, applicato a questi avvenimenti, è assolutamente inadeguato e può trarre in inganno chi non conosce i fatti. Non si trattò infatti di una singola battaglia navale, con corazzate e incrociatori che si fronteggiavano a colpi di cannone da una parte e dall’altra, ma di una lunga serie di episodi bellici che vedevano da una parte dei convogli di navi di “pace”, cioè mercantili e passeggeri, che trasportavano materiali e truppe, adeguatamente scortate da navi da guerra, e dall’altra sommergibili, aerei e navi da battaglia, che cercavano di impedire il trasporto.
L’Italia aveva un bisogno vitale di tali convogli: basti pensare alle necessità di rifornimento della Libia, la quarta sponda, dove le nostre truppe, forti di circa 250000 uomini, dipendevano completamente dalla madrepatria per i rifornimenti di munizioni, carburanti, vettovaglie, mezzi e truppe fresche. E ricordiamo pure che quel settore fu veramente critico e – oserei dire – decisivo per le sorti di tutta la guerra. Ciononostante all’epoca questa problematica fu assolutamente sottovalutata e già prima dell’inizio della battaglia furono commessi una serie di errori che ne compromisero irrimediabilmente l’esito e ci portarono alla sconfitta finale. Vediamo di elencarli brevemente:
• All’inizio, nel 1940, non si approfittò del fattore sorpresa e del fatto che all’epoca la marina britannica era in condizione di inferiorità e le sue basi (Alessandria , Gibilterra, Malta, ecc.) non adeguatamente protette e facilmente vulnerabili. Si preferì, invece di partire all’attacco, tenere le nostre navi ferme nei porti in attesa di un improbabile quanto inutile scontro campale.
• Nella stessa ottica del punto precedente, non si pensò di conquistare immediatamente, quando i rapporti di forze lo avrebbero ragionevolmente consentito, l’isola di Malta, spina nel fianco dei nostri traffici con l’Africa settentrionale. Per convincersene basti guardare una carta del Mediterraneo: Malta è proprio a metà strada tra la Sicilia e la Tunisia e nessun convoglio in navigazione dall’Italia all’Africa settentrionale può allontanarsene di più di 200 miglia marine; distanza assolutamente ridicola.
• Non si tenne alcun conto del fatto che un sistema complesso, come un convoglio militare in ambiente ostile, richiede una profonda collaborazione delle tre forze armate principali: la marina che effettua materialmente il trasporto, l’esercito che fornisce (e fa arrivare al momento giusto) gli uomini e i mezzi da trasportare, l’aviazione che protegge il convoglio con attività di ricognizione, di difesa ed anche di attacco. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto non si volle dotare la marina di navi portaerei, che avrebbero potuto assicurare la copertura aerea altrimenti impossibile data la lontananza eccessiva (almeno per gli aerei dell’epoca) degli aeroporti e delle basi a terra. Il tutto in nome della cervellotica affermazione che l’Italia è tutta una grande portaerei!
• Non si pensò di organizzare preventivamente la logistica. I trasporti di uomini e mezzi così diversi richiedono attenzione particolare: oggi la logistica è una delle branche più importanti dell’organizzazione aziendale e per renderla sempre più efficiente si utilizzano sofisticate procedure informatiche. Nei porti di partenza il materiale da caricare doveva essere disponibile al momento giusto per evitare che le navi partissero non completamente cariche. Gli uomini poi dovevano arrivare tutti insieme appena prima della partenza, ad evitare che si fiaccassero con snervanti attese. I tempi di carico dovevano essere ridotti al minimo, perché, soprattutto negli ultimi tempi, il momento del carico rendeva uomini e mezzi molto vulnerabili agli attacchi aerei nemici.
• Si dette pochissima importanza alle innovazioni tecnologiche. Le nostre navi non erano dotate di radar, mentre quelle inglesi sì; è facile capire come fossimo in condizioni di inferiorità: un po’ come se dei ciechi avessero dovuto lottare contro dei vedenti. Inoltre non si dette molta importanza alle esigenze della segretezza e dello spionaggio: sta di fatto che gli inglesi conoscevano preventivamente i nostri movimenti e – quel che è peggio – l’esatta composizione dei nostri convogli, per cui molto spesso avvenne che gli attacchi furono sempre mirati e furono sferrati quando “ne valeva la pena”. A questo proposito vorremmo ricordare le polemiche che infuriarono nel dopoguerra in merito a supposti tradimenti. Mi piace pensare che tradimento non ci fu, ma ci fu purtroppo un altrettanto grave lassismo e superficialità.
Nonostante i punti negativi prima citati, la Battaglia dei convogli, anche se non può essere considerata una battaglia vinta, fu comunque un discreto successo, almeno dal punto di vista statistico. Ci riferiamo ovviamente ai trasporti con la Libia del 40’ al ’43 e non alla famosa “rotta della morte” con la Tunisia, quando le perdite complessive ammontarono al 29% per il materiale ed all’8,35% per il personale, contro rispettivamente il 14% ed il 7% della rotta libica (ma il disastro della rotta tunisina fu dovuto soprattutto all’entrata in guerra delle forze americane, in una situazione per le forze dell’Asse già compromessa). Fu un discreto successo, perché comunque riuscimmo ad assicurare i rifornimenti in Africa settentrionale, ma fu una sconfitta perché comunque non riuscimmo a neutralizzare la spina nel fianco di Malta, né delle altre basi (Gibilterra, Alessandria), da cui partivano le offensive nemiche. Del resto, se ci spostiamo sull’Atlantico, l’offensiva dei sommergibili tedeschi di Dönitz contro i convogli anglo-americani procurò in media perdite dello 0,6%, con un picco di un misero 0,9% nel momento migliore (o peggiore, a seconda dei punti di vista). E purtroppo c’è da dire che mai come in questo caso le statistiche sono bugiarde, perché, evidenziando necessariamente una media, non mostrano che le perdite maggiori si ebbero soprattutto nei trasporti critici, quelli cioè di carburanti e materiali per le truppe, mentre minori furono le perdite di materiali destinati ad usi civili; ciò evidentemente a causa delle citate falle nella segretezza dovute alla decrittazione dei nostri codici crittografici. Se comunque un risultato discreto si ebbe, esso fu dovuto all’abnegazione ed all’eroismo della nostra Marina.
Ma veniamo all’argomento specifico del mio intervento. Uno dei punti di debolezza che ho citato precedentemente riguardava l’impreparazione e l’improvvisazione logistica. Non si tratta qui di eroismo o di virtù militari, ma di meno esaltanti capacità organizzative, forse per questo più trascurate, ma di importanza pari se non superiore all’eroismo in battaglia. L’impreparazione iniziale è dimostrata da alcune constatazioni storiche. All’inizio delle ostilità, pur avendo avuto il vantaggio di dichiarare la guerra in ritardo (e quindi di poter scegliere la data con largo anticipo e con la massima segretezza), non si pensò di avvertire le navi mercantili italiane sparse per i mari del mondo se non con tre miserabili giorni di anticipo. Così ben il 40% del nostro naviglio mercantile, che sarebbe stato vitale per la battaglia dei convogli, rimase internato in porti neutrali o addirittura nemici. Secondo punto; all’inizio l’organizzazione dei traffici oltremare fu affidata ad un solo capitano di vascello (il CV Emilio Ferreri) distaccato presso Supermarina, senza collaboratori o con collaboratori occasionali: in queste condizioni nessun essere umano, nemmeno un genio o un eroe, potrebbe fare molto di fronte ad un problema di tale complessità. Fu perciò presto creato un uffico ad hoc, sempre presso Supermarina, denominato Ufficio RTSO (Rifornimento, Traffico, Spedizioni Oltremare). Col progredire delle ostilità furono poi creati vari uffici distaccati, uno dei quali in particolare ebbe sede a Napoli, come Mariconvo (Comando Gruppo Motonavi Veloci – marzo ’42), con il compito di curare la preparazione militare delle navi mercantili in partenza (armamento difensivo e nebbiogeno, imbarco e addestramento del personale addetto, imbarco dei comandanti militari e del personale e dei mezzi addetti alle telecomunicazioni ed ai segnali). A parte questo, comunque Napoli fu il porto di partenza principale per le rotte dell’Africa settentrionale, per i seguenti motivi:
• Il porto di Taranto aveva subito il devastante attacco di aerosiluranti inglesi del 12 novembre 1940 e quindi rimase per lungo tempo impegnato per i lavori di riparazione delle opere statiche e di recupero delle navi danneggiate.
• Napoli risultava meglio difesa di porti come Augusta, La Maddalena e La Spezia ed inoltre offriva spazio di manovra sufficiente per la grandi navi come le corazzate della classe Littorio.
• Napoli era più vicina ai teatri operativi di quanto fossero Genova e La Spezia, che restavano troppo decentrate.
Ciò comportò problemi logistici, per la grande affluenza di truppe, che dovevano essere acquartierate nelle caserme cittadine in attesa di imbarcarsi, e di mezzi, carburanti e munizioni, che arrivavano per ferrovia direttamente sulle banchine portuali e dovevano essere caricate sulle navi nel più breve tempo possibile, in quanto vulnerabili agli attacchi aerei. Napoli divenne così automaticamente una città di prima linea, e non soltanto dal ’42-43, quando si intensificarono gli attacchi terroristici degli Alleati contro la popolazione civile, ma fin dall’inizio della guerra. Basti ricordare i due bombardamenti dell’inverno ’40-41. A seguito del citato attacco di Taranto del 12 novembre, le corazzate italiane superstiti e numeroso naviglio ausiliario furono trasferite nel porto di Napoli, che si trovò quindi ad ospitare contemporaneamente le due corazzate Vittorio Veneto e Giulio Cesare, i tre incrociatori pesanti Gorizia Pola e Zara, nonché undici cacciatorpediniere. Erano inoltre presenti in porto i due piroscafi passeggeri Giulio Cesare e Lombardia e la nave ospedale Arno. L’attacco inglese iniziò alle ore 21 del 14 dicembre 1940 con nove bombardieri Wellington in due ondate: la prima di quattro, la seconda di cinque. L’allarme fu dato solo sei minuti prima dell’arrivo della prima ondata sull’obiettivo e la contraerea territoriale (Dicat) poté fare ben poco per impedire l’ingresso degli aerei sull’area portuale. A quel punto l’unico modo per contrastarli era il tiro delle mitragliere di bordo, che continuò per circa un’ora, fino al primo cessato allarme. La seconda ondata si ebbe circa un quarto d’ora dopo la mezzanotte ed ebbe svolgimento molto simile: sbarramento inefficace della Dicat e tiro non solo delle mitragliere di bordo, ma anche dei pezzi da 90/50 della Vittorio Veneto. Nessun aereo nemico fu abbattuto; in compenso, se qualche nave del naviglio ausiliario subì leggeri danni, l’incrociatore pesante Pola fu invece seriamente danneggiato, perché colpito da due bombe semiperforanti da 250 libbre, che provocarono anche 22 morti e 33 feriti. Fortunatamente la città non subì né danni né vittime, tranne che per alcune vittime a Bagnoli. Il Pola, per i danni subiti, dovette essere trasportato in bacino nello stesso porto di Napoli, dove subì importanti riparazioni. Questo bombardamento dimostrò la vulnerabilità della base navale napoletana, sia per l’intempestività degli allarmi antiaerei e soprattutto, come denunciato dall’ammiraglio Iachino, per la mancanza di adeguati sbarramenti nebbiogeni. Per questo motivo le navi superstiti furono temporaneamente trasferite alla Maddalena, in attesa che le opere di adeguamento del porto di Napoli (la cui necessità era stata in verità già prevista) fossero realizzate.
Intanto, mentre noi ci preoccupavamo di salvaguardare la nostra flotta in vista di un ormai “mitico” scontro campale e definitivo, gli inglesi organizzavano magistralmente i loro convogli, basandosi sulle intercettazioni, sullo spionaggio, sulla collaborazione delle forze navali ed aeree: tutte cose che noi sembravamo incapaci di fare. Ma torniamo a Napoli. Completate almeno parzialmente le opere per l’installazione dei gruppi nebbiogeni a cloridrina, la flotta fu fatta rientrare nel porto di Napoli, esattamente il 20 dicembre 1940. Per i primi di gennaio del ’41 gli inglesi avevano organizzato degli importanti trasporti; l’operazione, denominata MC4, prevedeva un grosso convoglio, di nome Excess, che, in partenza da Gibilterra, doveva rifornire prima Malta, poi il Pireo. Poiché gli inglesi non operavano certo a caso, per assicurare un tranquillo svolgimento dell’operazione MC4 ed avendo la loro ricognizione individuato la presenza di nostre unità da battaglia nel porto di Napoli, decisero di attaccarlo la sera dell’8 gennaio 1941 con aerei Wellington dello stesso tipo di quelli adoperati meno di un mese prima. Questa volta però le cose non andarono altrettanto bene al nemico. Infatti la ricognizione antiaerea dello stretto di Messina individuò per tempo lo stormo inglese e la contraerea dell’area napoletana fu pronta ad accoglierlo. Ma, cosa ancor più importante, furono azionati i nebbiogeni in tempo per avvolgere la flotta in una cortina impenetrabile, tranne la corazzata Giulio Cesare, che rimase esposta per ¾ della sua lunghezza, a causa della mancanza di dieci unità nebbiogene ancora non inviate da Roma. Ciononostante nessuna delle nostre navi fu colpita direttamente, se non da schegge provenienti dai moli, e i danni furono minimi. Viceversa la città questa volta fu colpita direttamente: quattro palazzi ed una cappella furono distrutti parzialmente e ci furono 7 morti e 27 feriti tra la popolazione civile.
Nonostante l’azione fosse stata per gli inglesi un insuccesso, essa si trasformò purtroppo in un grande successo strategico. Infatti essa convinse definitivamente l’ammiraglio Iachino che la base di Napoli non era sufficientemente sicura e lo portò a relegare le nostre navi da battaglia nel porto della Spezia, dove erano praticamente inutilizzabili, perché troppo lontane dai teatri di battaglia del Mediterraneo centrale e orientale. La dimostrazione inconfutabile di ciò si ebbe quando le corazzate Vittorio Veneto e Andrea Doria furono inviate nel canale di Sicilia per dare il colpo di grazia alla portaerei inglese Illustrious , danneggiata da un brillante attacco di aerosiluranti italiani e tedeschi (finalmente insieme), ed esse non arrivarono in tempo!
Con questo atteggiamento rinunciatario, finalizzato alla conservazione di una forza inutile perché inutilizzata ed inutilizzabile, l’esito della Battaglia dei convogli e della stessa guerra era purtroppo scontato. Napoli, in quanto capolinea di questa battaglia, subì quindi dei sacrifici inutili ed ebbe un precoce anticipo delle ferite che il barbaro terrorismo anglo-americano le avrebbero inferto nei ben più tristi anni dal ’43 in poi, quando l’Italia fu sconfitta e la stessa idea di Patria vacillò.

Paolino Vitolo

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